Giuseppe Antonelli, Lingua ipermedia

01-03-2007

Più che parlato, di Paolo Zublena

Sia benvenuta una riflessione di merito stilistico sulla lingua della narrativa recente, in un momento storico in cui prevale la più trita e corriva analisi contenutistica – pressoché esclusiva nelle pagine dei quotidiani –, agevolata dal reazionario ritorno alle “storie” tipico della mercificazione postmodernista. Se infatti la narrativa italiana modernista ha goduto di un’interpretazione originalmente linguistica, principi i due grandi monumenti antipodici costituiti dai saggi di Contini sulla “funzione Gadda” e dallo “stile semplice” di Testa, da tempo ormai le sparute indagini formali su testi letterari in prosa – con pochissime eccezioni – non fanno che affannarsi a mostrare l’ovvio, cioè che l’italiano dell’uso medio sia la varietà base di romanzi e racconti di oggi (con l’automatica ma scorretta implicazione che ciò si traduca eo ipso in una medietà stilistica), senza problematizzare il fatto che spesso sono proprio le categorie di analisi reçues a generare dati allineati alle previsioni. Fa bene dunque Antonelli a variare e complicare i fenomeni linguistici oggetto di spoglio: è l’unico modo di definire per via stilistica categorie critiche nuove tali da rendere conto del mutamento che ha interessato la narrativa italiana degli anni novanta.
Il libro è a tesi: sarebbe esistita una varietà dominante nel decennio in questione, cui l’autore attribuisce l’etichetta di “lingua ipermedia”. Questa varietà – e qui si transita dalla rilevanza linguistico-stilistica a quella critico letteraria – revocherebbe in dubbio quella che per l’autore è una mera vulgata interpretativa, efficacemente rappresentata su questa rivista da Luperini (cfr. “L’indice”, 1997, n. 3) e riassumibile in due punti: nella nuova (allora) generazione di narratori si registra una “totale assenza di mediazione letteraria”, intesa come contatto vivo con la tradizione italiana, cui va di pari passo una presunta “mutazione antropologica” fondata su una diversa “percezione del reale” cui concorrerebbe soprattutto l’influsso dei media. Secondo Antonelli invece la “lingua ipermedia” è frutto di un’operazione colta ed è priva di intenti mimetici o peggio di un mimetismo inerziale, installandosi anzi su una filiera che passa per l’espressionismo gaddiano, per l’eversione sperimentale e neoavanguardistica, e attraversa i minimalisti ottanta sulla scialuppa del libertinismo linguistico di Tondelli. Antonelli avvicina dunque oggetti anche molto diversi tra loro sulla base dell’opposizione allo stile semplice, sotto l’insegna proteiforme della complessità.
I caratteri di questa complessa “lingua ipermedia” individuati fin dal prologo sono: l’eccesso (inteso soprattutto come iper-uso stilizzato – ritornellante – di tratti del parlato sul lontano modello del Capriccio sanguinetiano); la metatestualità; la permeabilità ai codici dei vecchi e nuovi media; la plurisensorialità; la distorsione o amplificazione della medietà linguistica.
È molto persuasivo che alcuni elementi di per sé tipici del parlato non vadano interpretati sempre come vettori di mimesi dell’oralità: altri istituti linguistici sono poi accostati a essa più in virtù di un’immagine virtuale della lingua che della sua realtà empirica: paratassi, periodo breve e (soprattutto) stile nominale pervasivi in molta narrativa sono tratti solo pregiudizialmente riconducibili al parlato (molto più plausibilmente a una finzione di esso più o meno teatrale). Di qui una necessaria distinzione tra un parlato “semplificato” (impoverito, banalizzato) di neonaturalistica inerzialità e un “piùccheparlato” che del parlato è una monologica e straniata esasperazione (Aldo Nove, tanto per capirci). Distinzione utilissima: soltanto non credo che vi si giunga attraverso la funzione Gadda (le grandi scritture nevrotiche – Landolfi ma anche il pluristilistico Gadda con il suo caos iperorganizzato – sono lontane dal parlato e dalla sua più o meno presunta mimesi); un po’ più via “funzione Sanguineti”. Ma non trascurerei i tic e i manierismi del linguaggio psicotico (mi pare, tuttavia, di capire che Antonelli non consideri la “funzione Bernhard” italiana – e quindi le ricorsività sintattiche, il “troppo pieno” di Trevisan e Pica Ciamarra, che io credo essere i nuovi narratori più rilevanti degli ultimi dieci anni – come pertinente alla lingua ipermedia) e al limite anche l’esasperazione dello stile semplice.
La questione principale sollevata dal libro appare questa: sono riconducibili alla categoria della lingua ipermedia tutti gli oggetti che Antonelli vi rubrica? La risposta è senza dubbio positiva per le pur diverse soluzioni linguistiche di Aldo Nove e di Tommaso Ottonieri, e in parte per quella di Paolo Nori (ma qui la mediatezza diminuisce), già meno per il mediocre coupé tra Ilvio Diamanti e rotocalco pour les dames di Pascale, meno ancora per le molte scritture immediate à la blog (Luperini non aveva poi tutti torti) e per quelle mediatissime (vedi il neobarocco virtuosistico e linguaiolo di Scarpa). Secondo punto decisivo, le categorie di analisi della stilistica. Ha ragione da vendere Antonelli quando stigmatizza l’inefficacia della stilistica tradizionale nell’analisi di testi recenti (per la poesia il fatto è anche più evidente), anche se io sarei più netto nella rinuncia alla nozione di “scarto”. E interessante è la proposta di una “stilistica strategica”, che ha il merito di considerare il testo nella sua interezza e in rapporto all’extratesto (pur esagerando forse un poco la rilevanza dell’intentio auctoris). Non è qui il luogo per discutere le griglie proposte, né per controproporre modelli (una stilistica sistemica? una stilistica fenomenologica?). Sì, però, per registrare l’urgenza di un dibattito sull’epistemologia della stilistica, perché il pur spesso efficace empirismo preteorico e l’onda lunga spitzeriana faticano a inquadrare i testi del nostro tempo. Molti altri sarebbero i problemi da discutere ma è intanto importate che questo libro abbia lanciato un sasso in uno stagno a oggi piuttosto acquitrinoso.