Lidia De Federicis, Del raccontare

19-02-2005

La scuola, le donne, le cose ultime, di Giovanni Tesio


Della vita e dell’esercizio intellettuale Lidia De Federicis ha sempre fatto un uso discreto, che viene dall’“eclettico giardino dei lumi” cui si rifà. Un’ininterrotta capacità di interrogazione (“contrassegno a me congeniale”) che ne informa le mosse. Una costante sprezzatura eretica ed etica. Una laica concezione del mondo che pensa la letteratura come “luogo sperimentale delle strutture conoscitive”.
In questo libro di piccola mole appena uscito da Manni, Del raccontare, e costruito con pagine già apparse su Belfagor  e sull’Indice dei libri del mese, si racconta ora nelle forme di una memoria sinteticamente conversevole (nulla di più lontano dallo spirito analitico che nel giudizio di Pontiggia sarebbe una caratteristica del femminile) e ci parla di sé e della sua posizione interpretativa guardando –attraverso i libri– all’“altro” che li lega, ossa tenendosi ben lontana da ogni chiuso esercizio di lettura, come conferma del resto il curriculum di insegnante “per un quarto di secolo” al Liceo Gioberti di Torino, di fortunata antologista (con Giovanni Arpino, con Francesco De Bartolomeis, con Remo Ceserani) e di fondatrice dell’Indice su cui continua l’assiduo lavoro di lettrice “per professione”.
Un doppio modo di procedere sia per la parte del soggetto, sia per la parte dell’oggetto. Per la parte del soggetto perché l’atteggiamento sottolinea una forma affettiva (Saggi affettivi è il sottotitolo del libro) resistente ad ogni cordialità sentimentale e ad ogni prospettiva consolatoria. Non è, infatti, meno suo che di Luisa Adorno o di Camilla Cederna o di Grazia Cherchi quella “maschera di reticenza” in cui l’esercizio della rimozione diventa tutto un “clima di moralità e di gusto”. Per la parte dell’oggetto perché discorrere di un libro diventa un modo per “parlare d’altro”, e qui specialmente della scuola, dell’essere donna (e sul tema donne-scuola sfiorare cinquant’anni di vita italiana), di una letteratura non esornativa che nel suo farsi continui a guardare alla corporalità, al dolore, alla morte, alle “cose ultime”, restando agli incroci di testuale e di extratestuale, di “materiale” e di “immaginario”.
Notevole il capitolo sulla scuola condensata in dieci appunti: la scuola come istituzione, come paradosso, come compromesso (un compito di “mediazione”), come contenitore (“i lumi che hanno inventato la libertà, hanno inventato anche la disciplina”), come microcosmo (“una società in miniatura”), come laboratorio (“Rispetto alla truce complessità reale è un gioco, è una simulazione”), come teatro (“Non c’è insegnamento senza spettacolo”), come posto e come avamposto (nell’“incertezza storica” una vedetta avanzata), come luogo delle donne (“i numeri dicono che le femminelle vanno bene a scuola e che l’insegnamento è un loro mestiere”).
Ma uno dei temi che stanno sotto traccia –ancor più che “di traverso” e “di sbieco”– è quello dell’identità, che contro ogni nozione pietrificata (le “collettive e temibili identità”) viene trattato in forma obliqua. Una cultura che non è disponibile a perdersi nel rischio di un “paradigma identitario” e che riesce a trarre il suo bene da libri sorprendenti, capaci di scavalcare ogni conformismo. Nell’“età degli estesi incroci” come la nostra, uno dei temi di fondo su cui –tra libro e vita– sarebbe stato bello che l’attenzione dell’autrice si estendesse ad un capitolo –specifico– del suo criticar raccontando.