Lorenzo Greco, Il confessore di Cavour

19-05-2011

Il frate che perdonò Cavour, di Massimo Melillo

C’è il perdono di Dio e quello degli uomini, che quasi mai l’accordano. Nella religione cattolica dopo la confessione al sacerdote dei propri peccati c’è l’assoluzione dalle proprie colpe e quando questi pronunzia la formula “Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen” ci si riconcilia con Dio attraverso la penitenza, che ripara offese, torti gravi e meno gravi e persino mortali. Nelle altre religioni monoteiste non vi sono intermediari e il peccatore è solo al cospetto di Dio: nell’ebraismo, ad esempio, c’è la “teshuvah” che è il ritorno alla purezza e non solo richiesta di perdono, decisione di cambiamento e volontà di prendere una nuova direzione. Sbagliare è, dunque, umano mentre perdonare è divino anche perché, ci è stato insegnato, “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Nel cattolicesimo, inoltre, è previsto un di più ed è l’Estrema unzione degli infermi e per chi è in pericolo di morte, un ultimo atto verso la salvezza che libera dai peccati prima dell’eterno trapasso. A meno che la confessione non implichi affari di Stato all’alba dell’unità d’Italia.

Una premessa questa per aiutare a capire e ad entrare nel vivo della vicenda in cui si snoda il dramma che vide protagonista il frate francescano Giacomo da Poirino ricostruita da Lorenzo Greco nel volume Il confessore di Cavour – selezionato al prossimo premio Strega – dove si raccontano in forma di suggestiva narrazione le dolorose tappe di un ministro di Dio colpevole di aver assolto quello che fu chiamato il grande “Tessitore” dell’Italia unita.
Fra’ Giacomo, al secolo Giovanni Luigi Marrocco, curato di Santa Maria degli Angeli parrocchia della famiglia Benso di Cavour, ebbe rapporti confidenziali e di amicizia con il conte Camillo, che in fin di vita volle morire “da vero cattolico, anzi vorrei che si pubblicasse su tutti i giornali che io ho spontaneamente chiesto i sacramenti e che voglio morire da vero cattolico". Così, dopo essere stato colpito da una grave malattia, chiamò al suo capezzale il frate francescano che impartì l’estrema unzione allo statista. Era il 5 giugno 1961, il giorno dopo Cavour muore da “vero cattolico” e comincia allora l’odissea di fra’ Giacomo, poiché la notizia dell'assoluzione del conte in punto di morte provocò subito clamore in quanto Pio IX con la bolla Cum Catholica Ecclesia  del 26 marzo 1860 aveva scomunicato gli invasori dello Stato pontificio e, soprattutto, il Subalpinum Gubernium guidato propriodal grande “Tessitore”.  Tra pietà cristiana e affari di stato s’innesta la questione della ritrattazione senza la quale i sacramenti impartiti da fra’ Giacomo a Cavour morente non avevano alcuna validità. Il conte, quindi, non poteva morire da “vero cristiano” se prima non avesse fatto ammenda della sua politica nei confronti dello Stato pontificio. Per fare chiarezza Papa Mastai, rigido difensore del potere temporale, convocò il povero frate che giunse a Roma il 24 luglio, ospite prima del convento dell’Aracoeli e poi in quello di San Francesco a Ripa al di là del Tevere.
Una Roma papalina che nella descrizione di Lorenzo Greco apparve al sabaudo fra’ Giacomo pullulante “di folla variopinta” nel reticolo di strade e vicoli carichi di storia: “Attraversai l’isola Tiberina, dove intorno a un vecchio ospedasle si trovavano lcuni ospizi di povertà: l’isola era affollata da torme di miseri vagabondi, di infelici, di vecchi ammalati. Pareva un vascello traboccante di derelitti che lì avesse fatto naufragio. Il teatro pietoso della miseria e dell’abbandono umani non poteva conoscere fondale più stridente dello splendore della bellezza monumentale di Roma. Almeno la sobrietà della mia Torino rendeva più dignitosa la miseria sconfinata di tanta popolazione”.
L’atteso incontro con Pio IX avvenne nel pomeriggio del 25 luglio in una sala degli appartamenti papali e subito il pontefice entrò nel merito: “Voi garantite che il conte Cavour ha ritrattato il suo operato…Se lo avete assolto vuol dire che si sarà dichiarato pentito di tutte le sue colpe contro la Santa Chiesa”. Ma dal frate, seppure intimidito dall’ambiente e dalla circostanza, arrivò secca la risposta: “L’avrà fatta o no, non saprei”. Un interrogatorio stringente che sembra durare un’eternità, tanto che il Papa gli chiede di “dichiarare per iscritto che voi mancaste al vostro compito, il quale era esattamente di obbligarlo a ritrattare”. Ma fra’ Giacomo non recede perché “se facessi una tale dichiarazione, tradirei la mia coscienza e coprire me stesso d’infamia. Sono pronto a sopportare ogni cosa, qualsiasi pena, anche la morte, piuttosto che rinnegare la verità”.
Non fu l’unico interrogatorio e il giorno dopo l’umile francescano si trovò dinnanzi a padre Panebianco, consultore del Santo Uffizio, ma non cambiò versione mantenendo la schiena dritta: “Io so di aver fatto il mio dovere sacerdotale, so di aver adempito al mio ministero portando conforto religioso a un penitente come il conte Cavour, che si trovava in extremis. Non ho tradito la mia coscienza”. Fra’ Giacomo era smarrito ma per nulla impaurito e mantenne una fermezza esemplare anche davanti ai rigori dell’Inquisizione, ultimi scampoli di un potere ormai al tramonto. Il 31 luglio fu di nuovo al cospetto di Pio IX e rivendicò la pietas cristiana come modello cui conformare il suo ministero, senza tener conto degli affari terreni della Chiesa incarnati da Papa Mastai e dalle gerarchie romane.
Furono giorni terribili e qualcuno gli suggerì anche di scappare, ma a 53 anni non si fugge dalle responsabilità, meglio affrontare a viso aperto i pericoli cui si va incontro: riuscì ad evitare carcere e patibolo, ma fu sospeso a divinis e ridotto allo stato laicale. Tornò a Torino l’8 di agosto e rimase ospite del convento di Santa Maria degli Angeli dove morì in povertà a 77 anni. Il giorno prima della morte, il 29 settembre 1885, Leone XIII lo consacrava di nuovo nel ministero sacerdotale.
Il racconto letterario di Lorenzo Greco è, dunque, un omaggio “al coraggioso padre Giacomo che qualunque testo di storia risorgimentale non può evitare di ricordare” poiché riconsegna alla storia, anche la più intima e più profonda,  personaggi noti e meno noti, che hanno contribuito alla costruzione dell’unità d’Italia.