Lucia Marchitto, Teresa dei ricordi

08-03-2006

Le gioie e le doglie di Teresa, una vita di ricordi


È strana la memoria perché adesso non ricordo cosa raccontava in seguito la nonna, ma mi viene in mente il giorno che nacque mio fratello. Mio fratello che doveva chiamarsi Severo omVittorio come i due nonni. Mio fratello, il mio unico fratello, nacque che io avevo sette anni,la sua nascita cambiò la mia vita e quella dei miei genitori, ma anche di tutti i miei parenti e del vicinato e, penso, anche del nostro piccolo paese sebbene molto più in là nel tempo quando lui è diventato quello che è,ma forse mi sbaglio forse già dalla sua nascita il paese cambiò o forse cambiò la mia visuale degli altri,adesso non saprei dire,dovrei andare più a fondo nei ricordi,ma l’ho già detto che la memoria è strana ed io adesso ciò che ricordo bene è il giorno della sua nascita o meglio il giorno in cui mia madre iniziò ad avere le doglie e mia madre, poveretta, ebbe le doglie per tre giorni. Io allora non lo sapevo, ma tutti pensarono che sarebbe morta e forse anche il bambino perché aveva tre giri di cordone ombelicale intorno al collo e allora nessuno aveva mai sentito parlare di cesarei e di ospedali, ma io tutto questo non lo sapevo e non lo seppi per molto tempo, cercavo di mettere insieme le mezze parole bisbigliate e origliate fingendo di essere intenta a studiare ma proprio non riuscivo a comprendere. Cercai anche di saperlo dalla nonna, di farmi spiegare il significato delle doglie e tutto il resto ma lei per tutta risposta «Il tempo ti spiegherà ogni cosa, perché c’è un tempo per tutto è quello che stai vivendo è il tempo dei bambini e i bambini devono solo pensare a giocare, crescere e studiare». «Ma nonna anche tu hai detto che quando è nata la mamma dovevi spingere,ed hai parlato di doglie e di parto e se ne hai parlato vuol dire che era già tempo». La nonna restava un attimo incredula poi sosteneva che non mi aveva mai parlato di queste cose, mai! Lasciavo perdere, sapevo che a volte quando raccontava era lontana e si dimenticava di me e quindi aveva ragione lei: non mi aveva mai parlato di queste cose, io le avevo carpite. Eppure nonostante tre giri intorno al collo e tre giorni di doglie mia madre non morì, mio fratello nacque ed aveva un velo sulla faccia e quando glielo tolsero non fece come tutti i bambini, no, non strillò, anzi allargò un sorriso. E prima ancora che io lo vedessi, prima che mio padre mi venisse a prendere per riportarmi a casa io sapevo tutte queste cose: le avevo ascoltate fingendo di dormire nel letto della nonna. Avevo sentito la zia arrivare trafelata, mi aveva toccato con una mano per accertarsi che dormivo e poi aveva raccontato tutto alla nonna. "Sono vivi, tutti e due, e il piccolino è nato col velo sulla faccia e non ha pianto, ha fatto un sorriso, un sorriso… Avresti dovuto vederlo" "Col velo? Dici che è nato col velo sulla faccia? Sarà un uomo fortunato, questo è certo!" E non lo disse solo la nonna, ma lo dicevano tutti in paese quando lo vedevano, lui così piccolo bastava che qualcuno lo guardasse per fargli fare un sorriso, un sorriso che incantava. Incantò anche me e oggi mi manca. Tre giorni prima, esattamente una domenica mattina, fui svegliata dai passi sulle scale, aprii gli occhi, una luce fioca si infilava tra le imposte, mi alzai e aprii la porta, mio padre camminava nel corridoio, accompagnando le zie e una sconosciuta, notati subito che era vestito in un modo insolito, non aveva la camicia e portava un maglione scolorito e un paio di calzoni vecchi e alquanto stropicciati, ed era agitato. Ero quasi arrivata davanti alla camera della mamma quando mi vide, restò un attimo perplesso, come se la mia presenza lo stupisse,
poi mi prese in braccio e mi riportò in camera "Sta per nascere tuo fratello, vestiti, ti porto a casa della nonna". Cercai di oppormi ma fu irremovibile, scendendo le scale sentii i lamenti della mamma. Nonostante fossimo in pieno inverno c’era il sole, il cielo era terso, alcuni passeri si posarono sul davanzale, presi del pane vecchio, lo sbriciolai e restai incantata a guardarli beccare, poi mi rifugiai ai piedi della nonna ma non ricordo cosa mi raccontò, ricordo soltanto il passare lento della giornata, le mie corse verso la porta al minimo rumore ma giunse la sera e nessuno bussò. Solo sul tardi arrivò mio padre che mi aiutò a mettere il pigiama e mi sistemò nel letto con la nonna "Tuo fratello non si decide a nascere, non preoccuparti,stanotte o al massimo domani avrai un fratello o una sorella, chissà!" Con la schiena contro quella della nonna sentivo gorgogliare il respiro, in giri concentrici scendeva dall’alto verso il basso,una pausa, poi risaliva fino ad uscire dalla bocca con uno strano sbuffo. Mi ricordava le fusa di un gatto. Nel buio della casa tenevo gli occhi aperti, sentivo lo scricchiolio dei mobili e il cantare di una civetta. Il tempo era immobile come la notte che si intravedeva dalle griglie delle imposte.
L’alba era già passata da un pezzo, dovevo andare a scuola ma non avevo la cartella e nessuno ancora era venuto a trovarci. Un senso di abbandono mi colse, la nonna mi invitò a stare al calduccio con lei sotto le coperte "Non vai a scuola, oggi, non sei contenta?" Feci un sorriso stanco, ero in seconda elementare e non avevo mai perso un giorno di scuola, mi piaceva molto la scuola anche se quasi tutte le mie compagne mi tenevano le distanze chiamandomi secchiona. Io, non è che studiassi poi molto è che le cose mi entravano in testa senza sforzo alcuno. Quando dovevo studiare a memoria una poesia la leggevo un paio di volte prima di addormentarmi e la mattina, quando mi svegliavo, la recitavo sotto le coperte. I libri poi li divoravo, Francesca per leggere un libricino era capace di impiegare tutta una settimana e a volte mi faceva compassione così l’aiutavo. Anche con i numeri ci sapevo fare anche se non li amavo come le parole. Mia madre quando vedeva i miei voti non diceva mai brava trovava sempre qualche piccolo neo, qualche parola di troppo in un testo o una imperfezione nel procedimento di un problema, per lei dovevo fare sempre meglio. Mi ricordo che un giorno avevo scritto un tema così bello sulla neve e lei nel leggerlo si era accorta che in una frase avevo usato due volte lo stesso vocabolo "Teresa, mi meraviglio di te, con l’intelligenza che hai potresti fare molto di più!" Lo faceva per me, dice, perché tutti mi elogiavano e sarei diventata una presuntuosa se non mi avesse ripreso.
Forse ha ragione, forse, ma le sue critiche mi suscitavano un senso di frustrazione e negli anni a venire di rabbia e quando invece mio fratello incominciò a frequentare la scuola,e non era bravo come me, ed era lodato per una semplice sufficienza e non solo dai miei ma anche dagli insegnanti che dicevano in coro «Certo non è bravo come sua sorella ma ha un sorriso!» la frustrazione aumentava ma mai, dico mai, ho avuto dei risentimenti verso di lui per questo fatto, anche perché già allora mi rendevo conto che anche lui portava sulle spalle un peso. Glielo avevo visto improvvisamente quel giorno che tornai dopo una gita scolastica di quindici giorni, era fermo, aveva solo undici anni ed era già diventato alto come mia madre, lo guardai e mi pareva impossibile che in sole due settimane fosse cresciuto così tanto, allargò un sorriso nel
vedermi ed era il suo solito sorriso e quando fu più vicino e mi abbracciò e poi quasi di scatto si spostò come se si vergognasse del gesto, allora, solo allora, la vidi la piuma che aveva sulle spalle ed era tanto pesante da piegargli la schiena. «Sei cresciuto!» dissi «Mi sei mancata» rispose, mi era mancato anche lui ma non lo dissi come tante altre cose che avrei voluto dirgli in tutti questi anni e non le ho mai dette.
Involontariamente ho scarabocchiato sul foglio, col carboncino nero due figure: un ragazzo alto con le spalle larghe chino sotto il peso di una piuma e una ragazza piccola magra con un enorme sacco sulle spalle, china anch’essa. Quel giorno che non andai a scuola mi viene sempre in mente quando ho una giornata vuota davanti e il tempo inclemente smette di scorrere e si arresta, mi giro, mi rivolto e non passa mai, e  non suona né il telefono né il campanello della porta e nella buca delle lettere non c’è neanche la pubblicità e nelle e-mail "nessun messaggio nuovo" e tu non hai voglia di mandar nessun messaggio anche se ne vorresti ricevere qualcuno. Sono quelle giornate che non sanno di niente dove non c’è né vento, né pioggia, né sole, né passi sulle scale, né frenate di macchine, né odore di caffè, e sai che il giorno dopo ti aspetta e porta in sé una risposta o un cambiamento o una decisione. E mi sento abbandonata. E in quei tre giorni che mia madre ebbe le doglie mi sentii così: abbandonata.
La mattina del terzo giorno arrivò mio padre, mi abbracciò, mi stampò due baci sulla faccia, mi sollevò in aria «È nato!» Mi vestii in fretta. Mi calcò bene il cappello sulla testa e mi abbottonò il cappotto. Fuori il freddo tagliava la faccia, il respiro si trasformava in nuvolette grigie che appannavano la vista, la mia mano saldamente aggrappata alla sua, il passo faticava a stargli dietro tanto che, ad un certo punto, mi prese in braccio, allora mi aggrappai al suo collo e chiusi gli occhi. E poi quella sensazione di sentirsi finalmente al posto giusto, e la felicità di essere piccola, una piccola bambina coccolata e protetta e importante nel suo cuore.