Maria Pia Romano, L'estraneo

01-03-2005

Le parole dell'amore per farsi accogliere, di Antonio Errico


Per scrivere l'amore bisogna saper creare un vuoto. Bisogna che ogni cosa diventi lontananza, che la realtà diventi evanescenza, che il tempo non scateni più quell'ansia che scatena, senza pietà, ad ogni istante. Per scrivere l'amore bisogna saper non aspettare e non cercare mai chi nella realtà si aspetta o si vorrebbe cercare. Perché per scrivere l'amore bisogna fare i conti con l'assenza, forse con l'assente, la personificazione di un'assenza, con una separazione, una distanza, con l'estraneo che compare inaspettato, che inaspettatamente poi scompare.
E dentro il vuoto, nel fossato scavato tutt'intorno, nella voragine aperta dentro il corpo, nello sprofondo in cui il pensiero si inabissa, cercare le parole più piene, più lucenti, le parole più dolci, più tenere, più suadenti, quelle che richiamano l'estraneo, che lo incantano, lo seducono, lo legano ad una ricerca desiderosa di appartenenza.
Questo mi sembra che sia, in sostanza, il senso del libro d'amore che Maria Pia Romano intitola L'estraneo.
Libro d'amore: come ogni libro d'amore innocente; pudico. Come ogni libro d'amore sognante, incantato; disarmante. Come ogni libro d'amore affondato in tutta la poesia che ha cercato di dire l'amore in tutti i modi, con tutte le parole. Ha ragione Giovanni Invitto nella prefazione ad individuare le fonti. Fa bene ad inquadrare la poesia della Romano nelle coordinate di un genere. Probabilmente io aggiungerei Pablo Neruda. Probabilmente aggiungerei Roland Barthes che non ha scritto poesia d'amore ma il più bel saggio sulla parola dell'amore.
E se l'estraneo non fosse altro che l'amore, l'amore sconosciuto e probabilmente inconoscibile, l'amore che cambia volto, che cambia parole, che cambia la maniera di manifestarsi, di essere presente, ma anche di allontanarsi di sparire. Se l'estraneo non fosse altro che la tensione di capire cos'è, da dove viene il desiderio che nasce dentro e cresce come una musica che arriva da un punto invisibile dell'universo. Se l'universo non fosse altro che il sé che non riesce a trasformare in pensiero l'emozione, se l'estraneo fosse la parola che si frappone tra una realtà del tempo e l'illusione di un tempo altro, eterno. Se l'estraneo fosse l'ossessione di non riuscire ad essere all'altezza o alla profondità di quell'amore, di non essere capace di toccare la luce d'oro o il magma che lo muove.
Può essere questo il motivo e il movente della poesia della Romano. Oppure può essere l'esatto suo contrario. Perché forse l'estraneo è il siognificato: quel significato ambiguo sfuggente incerto, che si sottrae ad ogni tentativo di definitività, di compiutezza, quel significato che si ridefinisce continuamente, si riformula, si rigenera in relazione al mutare delle emozioni, delle sensazioni, delle passioni, che mette in crisi se stesso e il soggetto che va alla ricerca di un significato dell'amore che non può avere significato ulteriore se non se stesso. Perché è l'amore il significato; non cerca significati, l'amore, non ne vuole; non può averne, forse. L'estraneo è il sé che a volte si osserva nella alterità di un amore in cui si riconosce autentico e diverso da com'era prima e da come potrebbe essere dopo quella condizione d'amore. Ma anche il prima e il dopo, il passato e il futuro sono situazioni estranee all'amore che ha un tempo proprio, circoscritto nell'assolutezza e nell'irrepetibilità di un presente in cui la mente e il corpo azzerano, o almeno riducono, le differenze per ricongiungersi nella astrazione di una parola, nel suono di una poesia.
E allora Maria Pia Romano cerca una musica, un suono, una poesia non per attrarre a sé l'estraneo ma per portarsi verso di lui, per farsi accogliere, per non farsi pensare e sentire estranea, per farsi riconoscere e comprendere dall'estraneo che ha un volto da sempre conosciuto.