Marina Mizzau, Se mi cerchi non ci sono

01-07-2015

Romanzi al Salone: Kehlmann, Sacchini, Ciriachi, Magliani, Mizzau, di Claudio Morandini

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Domenica 17, Marina Mizzau ha parlato con Carlo D’Amicis e un sornione Bruno Gambarotta del suo romanzo Se mi cerchi non ci sono, che Manni ha pubblicato quest’anno e che Umberto Eco e Angelo Guglielmi hanno presentato al Premio Strega.
In Se mi cerchi non ci sono Marina Mizzau mette in scena una variegata compagnia di parenti e amici attorno al defunto Leonardo, insegnante universitario e pater familias, il quale ha lasciato per ognuno di loro una lettera nel computer. Il romanzo è proprio questo: il succedersi di sequenze in cui, in combinazioni più o meno numerose, i personaggi parlano di sé e del defunto, e l’alternarsi delle lettere private attraverso cui Leonardo rievoca momenti passati.
Si mangia molto nel romanzo; anzi, si parla molto di cibo, di preparazioni, di gusti, di ricette. Attraverso il rapporto con il cibo e il gusto i personaggi si identificano, si esplicitano, si incontrano, solidarizzano o si distaccano. Attraverso i comportamenti alimentari riescono a studiare anche gli altri, gli estranei che siedono accanto a loro, e il resto del mondo, perso dietro a mode e manie che suscitano sorrisi e sospiri. Il cibo è così importante che viene rievocata La grande bouffe di Ferreri (ricordate i quattro amici che si dedicano in compagnia di una donna a un metodico suicidio gastronomico?): ma, a scanso di equivoci, le differenze sono tante, e il riferimento ovviamente ironico è fitto di distinguo.
Oltre che con il cibo, si gioca con insistenza con le parole. Circola un’aria da Lessico famigliare (la Ginzburg viene evocata anche lei, non a caso): la famiglia di Leonardo ha prodotto nel corso degli anni locuzioni tutte sue, ha storpiato per scherzo arie d’opera e titoli di film, ha eletto a formule ironiche frasi sentite per caso, assimilato e rivoltato come calzini tic linguistici alla moda, si è dedicata all’enigmistica (anche il titolo, lo diciamo senza timore di fare spoiler, nasce da una crittografia, il che ce lo rende più attraente), adottato slogan di caroselli. Queste formule, passando da una generazione all’altra, creano complicità, fanno scudo contro la banalità e la volgarità imperanti, diventano esercizi di intelligenza.
Per fortuna Leonardo, il defunto orchestratore del post mortem, nelle lettere rivolte ad amici e congiunti non pontifica, evita i rimproveri e le recriminazioni; si muove anzi con leggerezza umoristica nelle rievocazioni, svela dettagli insoliti, pensieri inespressi, e confida molto di sé senza imporre la sua visione del mondo (che comunque si impone da sé): ci accorgiamo con un certo stupore che la sua voce ci è diventata familiare al punto che tendiamo a dimenticare che è morto e che il dialogo a cui invita i convenuti è un monologo. Anche gli altri lo sentono ancora tra loro, con naturalezza ne parlano come di qualcuno ancora presente, e si concedono qualche boutade su di lui, senza troppi sensi di colpa.
Appare e scompare l’io narrante, un’ex allieva di Leonardo, la quale partecipa discreta, anche dimessa, osservando avida di informazioni sull’uomo di cui al tempo dell’Università era innamorata.
Marina Mizzau sfida diverse convenzioni letterarie in voga oggi, e scrive uno strano romanzo fitto di tante storie intrecciate che non diventano mai intreccio. Non dispone in crescendo secondo astuzie editoriali, non infila colpi di scena nel lungo giorno in cui si dipanano le situazioni (a parte, se vogliamo, la decifrazione del titolo). Quietamente, allaccia vite attraverso dialoghi divaganti. Con l’aria di occuparsi d’altro, dice cose molto vere.
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