Mario Lunetta, La forma dell'Italia

17-05-2009
Sfigurazione italiana, di Marco Dotti

Chi parla? Chi scrive? Ci manca ancora, suggeriva Roland Barthes, una vera e propria sociologia della parola. Tutto ciò che sappiamo è che la parola è potere, e come ogni potere agisce, guasta, compromette, si nasconde, seduce. Quantomeno dagli anni Ottanta, però, questa consapevolezza si è irrigidita fino all'inverosimile, incrementando di pochissimo il tasso minimo della nostra conoscenza critica del mondo.
Al contempo, ha abbassato il livello accettabile di decenza etica diventando, nella società ipermediatizzata dal mortificante spettacolo della sua dissoluzione globale, quasi un luogo comune buono per ogni slogan e réclame, trasformandosi così di volta in volta in abuso cinico della parola stessa, in cupa rassegnazione alle sue forme, in indolenza da scaltri piazzisti da salotto che della parola usano e abusano come di una moneta vivente di basso conio.

Scomode assoluzioni
Agli studenti americani che gridavano «Nixon merda», Marcuse consigliava di ridefinire la scala dei propri valori, di rileggersi Rabelais e cominciare a ridere (con Rabelais, certamente, ma soprattutto di Nixon e dei suoi valori).
Primo punto: perché nobilitare un guerrafondaio corrotto a un livello comunque umano, fosse pure escrementizio, era un po' come assolverlo restituendogli sul piano materiale il seriosissimo potere che gli si voleva togliere su quello simbolico. Secondo punto: perché, soprattutto per le nuove generazioni, la questione non era (non lo è mai stata, si spera non lo sara mai) di escludersi o integrarsi tout court nel sistema, ma di sviluppare la capacità di ricomporsi ed evitare la fuga a gambe levate dopo la prima, la seconda, l'ennesima sconfitta. Il processo di trasformazione sarebbe durato a lungo, e probabilmente fra parole e poteri la crisi del sistema avrebbe tenuto occupate generazioni su generazioni. Ora sappiamo come è andata, soprattutto in termini di fuga e generazioni sconfitte.
A parte la boutade su Nixon, però, è proprio dall'errata equivalenza fra parole, e fra cose e parole, che Marcuse metteva in guardia, e da quello che chiamava il «ragionare incestuoso» che, sui punti fondamentali e sulla base materiale del sistema, mette sempre e comunque tutti d'accordo. Se tutto equivale a tutto, se ogni oggetto, persona o parola equivale a un'altra, fosse pure di segno contrario, se non c'è trascendenza (qualunque essa sia) rispetto al mercato e se di conseguenza il bello stile lima, come paziente e prechirurgica disinfezione, ogni minima e naturale resistenza della lingua a una qualsiasi forma di «oggettività discorsiva» - oggettività del tutto presunta, d'altronde - che senso ha parlare o scrivere di democrazia e «poteri» quando la descrizione «neutra» non considera o nasconde chi, di questi poteri, è vittima o complice? Oggi quasi tutti scrivono (fossero pure mail, sms, o quant'altro) e l'alfabetizzazione di massa prima, quella tecnologica in seguito hanno prodotto, oltre agli indubbi vantaggi, anche certi insospettabili mostri.
Su tutti quella sottospecie di «bisogno repressivo» che, da qualche parte, fa rima col consumo (e la produzione, e la vendita, e lo smercio) culturale e di parole ma che, se rovesciato come un calzino, si rivela uno dei tanti simulacri che ancora alimentano illusioni o speranze di partecipazione in una società dalle maglie sempre più larghe in termini di sfruttamento, ma sempre più strette in termini di reale e concreta partecipazione.
Balzac, da quel moralista bacchettone che era, annotava sul suo taccuino che ogni ingresso in società comincia sempre con una critica al male, ma per diventare grandi ci si adatta ben presto a sopportarlo. E una volta grandi, belli, biondi e forti, si finisce inesorabilmente per commetterlo. Il che, poi, non è che un altro modo per ricordarci che chi scrive può pure continuare a considerare la (sua?) parola come un fine, ma inesorabilmente il mondo gliela restituirà come un mezzo.

Senza retorica
Che tutto questo avvenga sul piano individuale, in fondo, ha poco interesse ma che, a livello di un'intera comunità o collettività che dir si voglia, si cominci a tollerare tutto e il contrario di tutto, a commetere ogni genere di abuso, a imbrattare pagine di libri e giornali per scrivere ogni tipo di nefandezza, e l'education sentimentale delle nuove generazioni coincida con una sorta di assuefazione progressiva al peggio è tutta un'altra faccenda. C'è da pensare, leggendo il titolo dell'ultimo libro di Mario Lunetta (La forma dell'Italia, Manni editore, pagine 78, euro 10), a quale sia diventata la forma della nostra società, quale sia oggi il suo rapporto con la parola - nella fattispecie poetica, forse la più bistrattata e abusata in tempi di ministri poeti e veline ministro - e se ancora esistano possibilità di non integrarsi e al tempo stesso non isolarsi, come suggeriva Marcuse, di non crescere criticando e morire facendo «il male», come sentenziava Balzac. Nessun discorso moralistico, però, nella presa di posizione di Lunetta. Piuttosto una scelta civile e politica forte, della quale converrà tener conto. La dice lunga, sul punto, il ricorso nel libro all'uso del frammento. Quello sull'Italia, scrive Lunetta, è un «poema da compiere», e proprio nella deformazione della «forma» apparente, nella sfigurazione delle componenti di maniera che definiscono l'immaginario (anche politico) italiano, la «poesia ci chiama in causa, ci cita come testi». Se le parole possono tornare a concidere con le cose, allora è al frammento e alla sua resistenza ruvida che le parole di questo paese devono cominciare ad assomigliare. Nel bene e nel male. Ma senza retorica.