Paola Baratto, Carne della mia carne

30-06-2007

Uno strano banchetto funebre, di Massimo Tedeschi

Una scrittura che sa offrire scorci atmosferici densi e accurati: «Quell’anno giugno fu un mese di splendore senza riserve. Un’esplosione di lucentezza, un vento che spazzava le foschie, un azzurro così carico da sembrare di pietra».
Una scrittura che scandaglia con rapidi tagli certi complicati rapporti parentali: «Sua madre l’aveva tirata su come si alleva un rancore. Inacidendo ogni volta che la vedeva».
Che abbozza complicati profili psicologici: «Malbec era un uomo di pochi principi, ma di molti precetti».
E che accarezza le corde dell’ironia in tante descrizioni, come quella di una dama ingioiellata: «Alle dita le brillavano i traguardi d’un matrimonio lungo e riuscito».
Una scrittura come questa è già uno stile, racchiude una poetica, fonda una narrativa. Una scrittura come questa è il dono che studio e natura hanno fatto a una scrittrice bresciana, Paola Baratto, che per l’editrice Manni ha dato recentemente alle stampe il suo quinto romanzo, Carne della mia carne (pp. 256, euro 17). Se nei romanzi precedenti la sospensione, l’attesa, il «pianissimo» erano i tempi del racconto, stavolta nella trama del romanzo si inserisce la cifra del grottesco, con riverberi surreali e persino granguignoleschi. A orchestrare la materia c’è, appunto, l’ormai inimitabile stile della scrittrice: una bravura che sconfina nel virtuosismo, si attesta al di qua del confine della maniera, maneggia gli sguardi e le parole con sovrana sapienza, affronta anche le trame e le situazioni più impervie.
Carne della mia carne alterna e intreccia le vicende di due gruppi umani fra loro apparentemente remoti. Da un lato un gruppo di giovani di belle speranze e poco successo, che condividono un appartamento e le angustie di lavori precari. Dopo un nuovo trasloco finiranno per abitare - e collaborare, e in un caso amoreggiare - con Pietro Malbec, un ex contabile espulso da una banca per eccesso di scrupoli, un solitario che sulla soglia della maturità si reinventa cuoco di un catering domestico e, naturalmente, in nero.
Dall’altro canto c’è la famiglia Almonte, proprietaria di un’arrembante catena di supermercati e di molto altro, dominata da un patriarca-padrone. Sotto di lui un corteo di figli, generi e nipoti in cui non è difficile riconoscere i «tic» di tante persone arricchite, e che Paola Baratto trasforma in una galleria di ritratti sulfurei.
Un ponte fra questi due mondi viene gettato prima da alcuni personaggi minori, poi da un intreccio che sfiora il pulp. Oliviero Almonte, aduso ad affliggere i convitati dei suoi banchetti domestici con sofisticate pietanze a base di frattaglie e parti molli delle bestie macellate (cervella al limone, coglioncini fritti, midollo di ossibuchi, lingua salmistrata, crostini con milza: nulla viene risparmiato ai commensali), concepisce infatti un disegno surreale: imbandire nel proprio banchetto funebre, all’insaputa degli ospiti, il proprio corpo variamente cucinato. A spingere il patriarca a questa decisione c’è una somma di motivazioni: l’orrore per l’inumazione, lo sberleffo estremo a una coorte di parenti avidi e ingrati, qualche rimando ai rituali cannibalici degli indigeni del Sudamerica, un sapido desiderio di eternazione, l’estrema affermazione di un’invadente presenza sia pur per via gastrica e digestiva. L’ex contabile-cuoco e i ragazzi che con lui collaborano sono naturalmente i prescelti per l’impresa, che sfocia in una serie di dilemmi e colpi di scena fino allo scioglimento finale, che qui possiamo solo lasciar pregustare.
Il lavoro di Paola Baratto sul testo e sulla parola ricorda quello di certi intarsiatori di pietra: mani esperte che levigano il loro materiale con attrezzi e sostanze abrasive via via più fini, sino ad arrivare all’impalpabile polvere di osso che assicura l’ultima politura, l’estrema lucentezza. Il risultato, nel testo della Baratto come nei tasselli degli intagliatori, è identico: disegno nitido, accostamenti che intrigano, iridescenze che seducono.