Piera Mattei, Melanconia animale

22-09-2008
Piera Mattei: La fatica che non si vede, di Simona Lo Iacono

Essere nella pagina con la stessa naturalezza della vita esige un viaggio.
Un ritorno.
E tra il viaggio e il ritorno, occhi che hanno raccolto segnali. Ondeggi di carrozzoni e treni in ritardo. Voli su aerei senza pilota. Guidati dal pensiero, privi di ali d’appoggio.
Perché la naturalezza è fatica.
Una leggerezza che non fa percepire la tenacia di cui si nutre. Il rigore, la finzione.
La parola deve essere finzione. Ma una finzione perfetta. Che non sveli mai l’inganno. Che non dica i sentieri battuti. Le soste. Le accelerate improvvise e i rimpianti.
Piera Mattei riesce a fare tutto questo in “Melanconia animale” (Manni, pagg. 105, Euro 10,00). Una raccolta di racconti che sanno svolare sul cuore con il perfetto equilibrio di una ballerina di danza classica.
Che si affida alle punte. Che si piega in due senza sforzo. Che non tradisce neanche con un nervo teso o un sorriso forzato, le ore alla sbarra. Gli “un due tre” ripetuti migliaia di volte.
Piera rotea con una telecamera dall’obiettivo discreto, coglie emozioni e dubbi, paranoie della vita moderna e perplessità su un mondo che cambia.
Non stupisce che la sua melanconia si avverta solo alla fine, con un garbo da animale braccato, e con la lucidità composta, rarefatta, di chi la vita è abituato a guardarla senza nascondersela.
E glielo chiedo:

Piera, quanta lucidità in queste storie. In “Attraversamenti e deserti di gelo”, ad esempio. La paura della folla, l’agorafobia, e il desiderio di controllare lo spazio, il territorio, si scontrano col mistero della vita. Con la riflessione su ciò che potrebbe non nascere e non rientrare quindi nelle geometrie del mondo. Come mai questo accostamento, e qual è stata la genesi di questo bellissimo racconto?
La storia delle “bambine venute dal freddo”, come le ha ribattezzate sull’Unità Adele Cambria, è una storia vera. La protagonista, la voce narrante che soffre di agorafobia, cioè di una paura fobica degli attraversamenti in ampi spazi, ne è colpita profondamente. Avverte sulla sua pelle la percezione di uno spazio senza altri corpi, senza punti di riferimento, nel lasso di tempo – tre anni – intercorsi tra la fecondazione e la riattivazione della vita negli ovuli congelati. Resta “sospesa”, spaesata e confusa, la stessa sensazione che prova attraversando una piazza. Ne nasce l’intuizione che il terrore dello “spazio nullificante” nasca dalla coscienza che quello c’era prima di te, quando eri, anche tu, in quella fredda attesa ancora fuori della vita, e che quello spazio vuoto resterà, nella sua indifferenza, anche “dopo”, quando, come tutti, non ci sarai più. E’ un racconto non facile, certo, ma per me molto importante. Inizialmente tutto il libro doveva chiamarsi, come questo racconto, “Attraversamenti e deserti di gelo”. Poi “Melanconia animale” ha prevalso.
“Credo poi che la naturalezza che traspare dalla pagina sia anche il frutto di una sintesi. La sintesi di viaggi. Di sguardi sovrapposti a sguardi. Di vite su vite. E corpi su corpi. Per esempio quelli dei ballerini di un altro racconto, “Agadir”, dove i colori del Marocco sfiaccolano dalla pagina con una concretezza quasi materiale. E in cui l’osservazione si trasforma in puro pensiero, associazione mentale. In commemorazione: il ricordo di Roland Barthes che sottolinea il viaggio e lo colora di un velo di nostalgia. Di mondo cambiato. Di tempo già trascorso. E’ così?”
Sì, oggi tutti viaggiano. Il mondo si è trasformato in un luogo tutto da visitare. Ma viaggiare significa semplicemente spostarsi da un’altra parte se non dilata lo sguardo, se non apre alla storia.
Parti avendo letto dei libri, che ti fanno da guida. Parti sempre verso il paese del racconto, del mithos. Una delle gioie del viaggio, se non la principale, per me, è “il riconoscimento” del racconto già letto, un riprendere a narrare da lì. Qui, in Sguardi incidenti, la voce narrante riconosce, dietro le rughe e le bocche sdentate dei ballerini berberi che si esibiscono durante un banchetto, il tipo umano, la sensualità spericolata che facevano, decenni prima in un altro racconto, la gioia di Barthes.
“E poi c’è la lucidità nell’emotività. Trovo che sia un equilibrio molto difficile da raggiungere per uno scrittore. Catturare la perplessità senza renderla soggettiva, autoreferenziale. Ho colto questa sensazione in “La sposa bella”. Dove una donna che convive con un uomo già da anni e ha una figlia, decide di fare il grande passo e sposarsi. Certo, non è il matrimonio all’antica. Qui tutto è già stato consumato, persino l’abito è di seconda mano, acquistato senza prove dalla sarta né lacrime di commozione, ma su internet, con una esattezza telematica che sembra sovrapporsi ai vecchi sogni.
Sembra spietato il rivolgimento che descrivi – rivolgimento di tradizioni e momenti. Persino i dubbi della donna sono quelli che ieri avrebbe avuto un uomo. Mi ha colpito questa forza e questa fragilità. Questo connubio perfetto e contrastante com’è in effetti la vita. E la nostra vita oggi”.

Amo questo personaggio e gli auguro tutta la fortuna e la serenità che merita. Mi fa molta simpatia, per esempio, la sua scelta di non sperperare per il matrimonio, come oggi si usa, una quantità di danaro con cui si potrebbe mantenere per un anno un’intera famiglia. Sono certa che la sua scelta è fatta anche in questa prospettiva.
Volevo in questo racconto rendere la “verità” di una donna seria, bella e non vanitosa, anche coraggiosa, ma fondamentalmente sola, nonostante la famiglia, il figlio, e gli amici. Sola nella sua decisione. Volevo renderla in un’istantanea – dovrebbe essere “il più bel giorno” – mentre le passa sulle braccia un brivido di freddo, lei sola, in piedi davanti alla finestra, come in un quadro di Hopper, appunto, come dice il titolo.
“Infine un cenno allo stile. A questa prosa che scivola come una zanzara sull’acqua. Liscia. Oblunga. Senza annaspi di corrente alle spalle ma con armonia e musicalità profondissime. Quali sono stati i tuoi “maestri”? E quanta parte ha avuto nella tua maturazione l’esercizio della traduzione? Della lingua trasformata in (altra) lingua?”
Mi piace quello che dici dello stile, vorrei che tutti i lettori ritrovassero in questo libro, come tu scrivi con due sostantivi, armonia e musicalità e che lo sentissero scorrere come una zanzara sull’acqua. Liscia. Oblunga.La scrittura non deve esibire abbellimenti. Scriveva Keats, nel sonetto XXVI, proprio in calce a una novella di Chaucer: Oh, what a power has white simplicity! Il messaggio è chiaro, essenziale. E la poesia, lo stile, li trovo in quel definire la semplicità attraverso un colore, una sensazione visiva. Nella traduzione Garzanti quel white è reso con pura, dove la sensazione visiva scompare in un aggettivo astratto, e power poi è tradotto con gran forza dove, nell’originale, il sostantivo non ha bisogno di alcun aggettivo rafforzativo; per me un vero tradimento.
Siamo venuti come vedi direttamente a parlare di come affino lo stile. Si impara amando, credo. Amo, ho sempre molto amato, la poesia. Che per me significa anche imprimerla nella memoria, e ripeterla, come qui cerca di fare, in situazioni estreme, la protagonista del racconto Il tatuaggio. La frequentazione della poesia, credo, mi porta naturalmente a calibrare la scrittura, a mirare all’essenziale. (Sai, forse, che da anni sono coredattrice con Vincenzo Ananìa della longeva – siamo al diciassettesimo anno – rivista di poesia internazionale, “Pagine”). La traduzione, poi, lo vedi anche dalla citazione di Keats che ho appena fatto, è per me proprio una passione, quasi una mania. Quando leggo un autore in traduzione con testo a fronte, non posso fare a meno di confrontarlo subito con la resa che avrei dato io a quei versi.
Gli autori di racconti che amo sono molti, come puoi immaginare. Sono, solo per fare un esempio, Thomas Bernhard, Roberto Bolano, Mo Yan che, recentemente, ho posto al centro di una lezione durante un corso di scrittura tenuto da Luigi La Rosa. Tutti e tre sono anche o, per cominciare, poeti.
Amo, certamente, anche i romanzi. In questo libro la protagonista di Il tempo di corpi in spazi obbligati, viaggia in treno in compagnia di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, il libro più riuscito di Mark Haddon. Sì, il filtro della letteratura, è spesso utile, forse fondamentale, ai personaggi di questo libro, per interpretare la realtà, le sensazioni, gli incontri che stanno vivendo.
“Grazie, Piera. Anche Borges diceva che i libri nascono dai libri. E credo quindi che ogni scrittore debba molto ai libri che ha letto. E ad altri scrittori.
Una catena che immagino come un’infinita biblioteca. Labirintica e affastellata di scale. Scaffali. Titoli.
Mondi che rimandano ad altri mondi. E parole a parole.
Un intreccio che ci annoda agli altri.
E ce li rende indispensabili”.