Pietro Spataro, Cercando una città

30-12-2006

Poesie per un inventario dell'umanità, di Furio Colombo

O forse mi perdevo nella normale luce del giorno. Ed ecco l’avventura che si apre all’improvviso di fronte a me nel libro-poesia Cercando una città di Pietro Spataro. Gli operai tornano. Passano a uno a uno davanti a me. Le loro figure sono così nitide che posso riconoscere le mani, la perizia, la strana ostinata ripetizione dei gesti dove niente però è automatico o fatto per forza. Il gesto noto viene ripetuto con perizia, la conoscenza di ogni dettaglio è un modo di conoscere il mondo. C’è una sorta di interpretazione, di dignitosa e ferma partecipazione della persona che sa (detto «meccanico», «elettricista», «muratore») per il lavoro che fa, la consapevole dignità del suo pacato controllo su un frammento di mondo.
Adesso capisco, incontrandoli in queste pagine, la mia meraviglia (ancora bambino) quando nella clandestinità – che per me era solo la cantina di casa con la caldaia spenta – ho visto operai diventare partigiani, prendere il comando, sapere le cose da fare, conoscere le strade, dare direttive, come in una strana, magica scena di teatro. Adesso capisco gli ultimi versi del bel testo Osservatore imperfetto: «Sono un osservatore senza un planetario, anzi senza nemmeno uno straccio di stradario». Le strade si sono perdute ma le figure sono nitide, i gesti netti, la memoria intatta. Ciò che è accaduto è accaduto e il mestiere di poeta, non meno esatto, non meno trasognato dell’operaio che sapeva fare con tanta perfezione e che adesso è in esubero (lui che era «esuberante» nel suo lavoro, che gioco di parole agghiacciante e perfetto) e di cogliere con straordinaria visione periferica la condizione della storia, che è fermo di fotogramma e sospensione sul niente, mentre sul fondo la memoria (meglio: la coscienza di ciò che è stato) rifiuta di tacere.
Preciso. Cercando una città non è un libro di nostalgia. La vita c’è, respira, ha brevi abbaglianti lampi d’amore (dove la felicità piena della parola prende il sopravvento), ha scatti di fiera ricognizione di se stesso, dolore che non è rimpianto, piuttosto assenza. La vita c’è come inventario cauto di umanità appena intravista, che non è più mestiere, non è più l’orgoglio del lavoro, non è più la piazza e la folla (la massa?), il corteo. Non manifesta più nulla salvo sprazzi e scintille di esistenze che vengono a contatto e istanti di felicità («la mia bella», «al tuo seno non avevo pensato»). La vita c’è e trova macerie, reperti di male compiuto e di immensa omissione, il cratere del vuoto.
Ma il poeta – vero poeta di parola e fantasmi, di allusioni lontane e poi di sorprendente, scioccante contatto con la superficie fisica di un oggetto, con l’esercizio carcerario di fatti e incontri e corpi evocati dal pensiero, con l’improvviso trasalimento fisico di un mini universo dove senti tutti gli odori del mondo e sfiori la pelle di un altro essere umano. Il poeta ha da fare, perfino in un mondo svuotato di punti cardinali, persino in un mondo dove non sai se la gravità sta in basso o in alto, persino in un mondo in cui non credi nemmeno al cielo e sei vincolato dalla natura fisica, palpabile, constatabile della vita. Ha da fare perché non ha finito l’avventura, che resta immensa, resta la ragione finale di civiltà, il mestiere di constatare il mondo.
Che il quel mondo ci sia il funerale di Berlinguer e ci sia la bomba ignorante che cala dal cielo su Baghdad, innocente come le sue anonime vittime che non c’erano prima e non c’erano dopo, è parte di un fatto che appartiene alla poesia, ma è tangibile (lo senti con le mani) come se avesse una consistenza fisica. Il fatto è che gli occhi di un poeta, dentro e fuori, interiori e materiali, sono prensili e acuti e vedono di là dalla nebbia di questa lunga confusa mattina «del giorno dopo» sospesa sul mondo. Qui persino la guerra, persino la morte deliberatamente portata sul posto da uomini stupidi, è banale. Ma non sorprende il lavoro infaticabile dell’inventario, dell’elenco di cose che, a saperle vedere, sono il paesaggio.
Ed è questo il senso del libro di poesia di un autore dedito tutto il giorno al mestiere opaco e concreto della notizia. Ci sono segni, lungo questo orizzonte. Persino i fuochi lontani del passato portano un avviso che è il messaggio della poesia di Spataro: se qualcosa di così grande è accaduto, qualcosa deve accadere. C’è sempre un’ombra di profezia accanto al poeta, che è sempre un poco sciamano. Vale la pena di prestargli attenzione.