Renato Barilli, La neoavanguardia italiana

29-04-2008

Giovani scrittori senza lucciole, di Nicola Signorile

Non sarà solo per un caso se arrivano contemporaneamente in libreria due libri, uno di Renato Barilli e l’altro curato da Nanni Balestrini con la introduzione di Andrea Cortellessa. È quest’ultimo una antologia della rivista “Quindici”. Barilli invece rilegge e aggiorna per l’editore leccese Manni la storia di quel vasto movimento che è stato – e a ben guardare tuttora è – la neoavanguardia italiana (La neoavanguradia italiana. Dalla nascita del Verri alla fine di Quindici). Anzi, proprio questa coincidenza editoriale è una sorta di «certificato di esistenza in vita» del movimento, di cui Barilli e Balestrini, tra i fondatori del «Gruppo ’63», sono stati i protagonisti e di cui il critico Cortellessa rappresenta la proiezione attuale, incarnando uno degli eredi. Oppure un protagonista della «Terza ondata», se vogliamo adottare quella scansione di continuità e rotture che riassume per Barilli la vicenda italiana del Novecento letterario, legando insieme i Futuristi, i Novissimi e infine la «Gioventù cannibale», cioè l’avanguardia «con due neo».
In questa interpretazione della lunga permanenza di una solida «barriera al realismo» c’è la ragione principale che ha indotto Renato Barilli a riproporre un libro che aveva pubblicato con il Mulino nel 1995.
Erano trascorsi appena due anni da quel convegno di Reggio Emilia in cui si incontrarono i «padri» del Gruppo ’63 e i figli del Gruppo ’93 senza sapere ancora che si sta aprendo il decennio felice di «RicercaRE», l’annuale laboratorio di nuove scritture da cui sono uscite le cose migliori (o comunque le più nuove) della narrativa e della poesia italiana a cavallo tra un secolo e l’altro. Anche la nuova narrativa pugliese è passata da «RicercaRE»: Livio Romano, Annalucia Lomunno, Nicola Lagioia, Maria Venezia, Florinda Fusco, Francesco Dezio e Cosimo Argentina hanno tutti debuttato insieme a Niccolò Ammaniti, Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Isabella Santacroce, Giulio Mozzi e Simona Vinci; tutti leggendo dal vivo le loro pagine davanti ad un pubblico di scrittori e di critici, chiamati a discutere immediatamente su quel materiale, con scontri acri e appassionate difese.
La dimensione del gruppo e l’alta temperatura critica sono caratteristiche delle avanguardie, delle prime come delle neo-neo. Il bisogno di confronto teorico è stata la molla che ha prodotto la formazione dei nuovi critici, accanto ai nuovi scrittori, talvolta coincidendo le due figure, se pensiamo a Edoardo Sanguineti e a Alfredo Giuliani, altre volte rimanendo gli uni distinti dagli altri, da una parte gli scrittori (Balestrini, Porta, Arbasino, Pagliarani) dall’altra i critici come Umberto Eco, Angelo Guglielmi e, appunto, Renato Barilli.
In questo libro ricorre una narrazione in prima persona: Barilli è testimone di come sono andate le cose, ma è il suo stile soprattutto che si porta in primo piano facendo rivivere, come se accadessero oggi, vicende iniziate quarant’anni fa.
Immersi in questo torrenziale flusso di memoria si assiste a una autentica epopea e si scopre che davvero la neoavanguardia non è stata un fenomeno marginale, ma essenziale della letteratura italiana del Novecento. E le reazioni velenose che tuttora suscita nel sistema culturale segnalano che «non è ancora esaurito il potere di provocazione insito nel richiamo a quei fatti».
Benché poesia, narrativa e teoria siano, nell’esperienza del Gruppo’ 63, un intreccio inestricabile, come abbiamo accennato, Barilli compie lo sforzo di separare per spiegare. Lo soccorre la sua natura di fenomenologo degli stili (questo insegna al Dams di Bologna), col risultato di ricostruire una cosmogonia della neoavanguardia in cui colloca Luciano Anceschi e Antonio Banfi all’origine di quel rivolgimento delle idee e delle espressioni che porterà ad affacciarsi in Italia con dieci anni di anticipo il postmodernismo lanciato dal critico americano Ihab Hassan.
I giovani della neoavanguardia si ritrovarono subito – ricorda Barilli – con le riflessioni di un saggista francese, Lucine Goldmann che metteva in relazione la scomparsa della figura classica del padrone nel neocapitalismo con la latitanza della soggettività scoperta nella scrittura del «nouveau roman». E quello, riflette oggi Barilli, «era il passo incontestabile e incontrastabile richiesto dal nostro tempo, se si voleva uscir fuori dalle miserie, angustie, ristrettezze della società contadina, lasciando a un reazionario come il nostro Pier Paolo Pasolini il compito di vagheggiare e sospirare ai tempi in cui i contadini, magari, andavano a dormire a pancia vuota e vivevano in misere condizioni igieniche, ma potevano bearsi contemplando lo spettacolo fosforescente delle lucciole».
E quel passo incontrastabile fu alla origine dell’ostilità che la sinistra tradizionale e sentimentale, con le sue istituzioni culturali, oppose alla neoavanguardia. Ma poi esplose il Sessantotto e “Quindici” chiuse i battenti. Era finita, per il momento.