Valentino Parlato, La rivoluzione non russa

27-11-2012

Una recensione condita di riflessioni e qualche lacrimuccia, di Daniele Barbieri

Il quotidiano «il manifesto» sta esplodendo e/o implodendo. Persino le persone più distratte sanno che ieri nella prima pagina del quotidiano «comunista» (così si legge sopra la testata) Rossana Rossanda annuncia che non collaborerà più al quotidiano che fondò nel 1971 e aggiunge: «un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www.sbilanciamoci.info».
Io sono arrabbiato con la redazione per molte ragioni (che magari spiegherò un’altra volta) ma – del tutto incoerentemente? – continuo a sostenerlo, a pensare che (se non finisce nelle mani di un padrone però) pur con tutti i suoi difetti sia una lettura necessaria di questi brutti tempi. Addirittura ho preso dall’editore Manni 25 copie del libro di Valentino Parlato «La rivoluzione non russa» (sottotitolo «Quarant’anni di storia del manifesto», a cura di Giancarlo Greco: 188 pagine per 14 euri) e le ho già vendute, con lo sconto: anche questi pochi soldini – così hanno deciso editore e autore – andranno a rimpinguare le casse del quotidiano; o meglio finiranno forse in una grande “colletta” per tentare di ricomprare, in modo collettivo, il giornale quando i curatori fallimentari indiranno “l’asta”.
Ho preso le 25 copie “al buio” (beh, so bene chi è Parlato) e dunque in questa sorta di recensione devo anzitutto dire se sono rimasto deluso. No, il libro è proprio come «il manifesto» cioè pieno di pregi e difetti ma comunque unico nel suo genere; con Parlato sono a volte d’accordo e qualche volta invece mi fa inferocire.
Leggetelo per favore. E non solo per solidarietà.
Forse la frase-chiave del libro, la speranza irriducibile, è a pagina 96: «Cadere 7 volte, rialzarsi 8». Almeno io spero sia così.
In sostanza il libri è una lunga intervista, divisa in 7 (saranno mica le 7 cadute?) parti, cronologiche con frequenti flashback e flashforward. Si inizia con «Praga è sola» cioè «La nascita della rivista» e la radiazione (non l’espulsione) dal Pci. Il secondo capitolo, «Piazze piene e urne vuote», racconta «il quotidiano e le elezioni politiche del 1972» seguito da «Il Pdup per il comunismo» ovvero i dubbi su un «giornale o giornale-partito». Il quarto capitolo si chiama «L’album di famiglia» e ragiona «dagli anni di piombo alla manifestazione del 1994» (ovvero un 25 aprile anti-berlusconiano). Nel frattempo è arrivato il 1989, per qualcuna/o significa «il comunismo è morto»; nel quinto capitolo Parlato commenta «il manifesto a cavallo della caduta del muro di Berlino». Sesto e penultimo capitolo: «il bacio del rospo», inteso come governo Dini, con il sottotitolo «dall’avvento di Berlusconi al sequestro Sgrena». Per finire con «Senza confini» ovvero quanto è difficile «il futuro del manifesto e della sinistra».
Può darsi che questa ricostruzione faccia arrabbiare qualcuna/o perché privilegia alcune persone e scelte, dimenticandone altre. Sui primi anni non saprei dire perché io militavo altrove e leggevo «il manifesto» occasionalmente. Dalla fine di «Lotta continua» invece è diventato il mio quotidiano di riferimento e dagli anni ’80 in poi ho cominciato a collaborare: per quel che so, Valentino Parlato non omette o censura questioni importanti. Certo è il suo punto di vista: come lui stesso scrive (pagina 56) era «il più moderato del gruppo»; la Rossanda avrebbe su molti passaggi giornalistici e politici uno sguardo diverso, come lo aveva indubitabilmente avuto il graffiante e geniale Luigi Pintor (per fermarsi al trio più “resistente” dentro il quotidiano).
Quel che mi ha personalmente colpito – ecco le lacrimucce – è il finale ma prima di arrivarci voglio, a gran velocità, accennare alcune pagine particolarmente interessanti.
Forse molti lo hanno dimenticato ma, quando nacque, il quotidiano trovò un muro di insulti: «estremisti» urlava «Il corriere della sera» (dal suo punto di vista non aveva torto) e «pagati dalla Confagricoltura» accusò, senza alcuna prova, «L’unità». Altro punto spesso sottovalutato è «l’egualitarismo» dentro il giornale: «con la rotazione delle mansioni per cui anche un redattore doveva occuparsi a esempio delle spedizioni e con gli stipendi uguali per tutti».
Un paio di errori scappano anche alla ferrea memoria di Valentino Parlato. A esempio la «strategia della tensione» non viene inaugurata il 17 maggio del 1972 (con l’assassinio del commissario Calabresi) ma ben prima: quando nel 1969 iniziano a scoppiare le bombe con la strage – il 12 dicembre – di piazza Fontana e il tentativo (costruito a tavolino ma fallito) di incolparne gli anarchici. L’espressione fra l’altro è l’intelligente parodia della frase, allora di uso comune, «strategia dell’attenzione» per indicare che una parte della Dc cominciava a ragionare su una qualche apertura al Pci.
Altro errore che ha dell’inverosimile (la fretta di fare uscire il libro?) è datare al 1986 «l’anno in cui Psichiatria Democratica ottenne la chiusura dei manicomi».
Se il libro capita in mano a persone giovani sarà utile ricordare che il «referendum» del quale si parla nel secondo capitolo è quello indetto per abrogare il divorzio (vinse nettamente il «no», dunque prevalse lo schieramento di chi era contrario al fronte abolizionista dei catto-fascisti). Invece il «Verisco» (a pagina 65) è il tenente colonnello dei carabinieri Antonio Varisco ucciso dalle brigate Rosse il 13 luglio 1979. Quanto allo scandalo «Stravinsky» (citato a pagina 71) il musicista non c’entra: se la memoria non mi tradisce il riferimento è allo scandalo Stavisky del 1934. Vaghissimo il riferimento (pag 141) agli «scioperi della polizia». In tutti questi casi qualche nota a piè di pagina avrebbe aiutato chi legge.
Divergo in partenza sul rapporto amore-odio con il Pci. Ci sono poi alcuni giudizi lapidari di Parlato (per esempio sul movimento del ’77) che non mi convincono e mi spiace invece che non abbia dato rilievo alla coraggiosa campagna de «il manifesto» contro gli arresti del «7 aprile» (1979) e il «teorema Calogero». Nel complesso però la radiografia del cosiddetto «album di famiglia» è interessante.
Egualmente valida è l’analisi sulla cosiddetta «morte» del comunismo («questa constatazione andrebbe estesa anche al capitalismo» scrive Parlato). Ed è qui che viene ricordato il proverbio francese «cadere 7 volte, rialzarsi 8». Ma soprattutto va sottolineato un punto: quando crolla il Muro «la sinistra italiana è colta di sorpresa: il manifesto, che aveva denunciato per primo in Italia stalinismo e socialismo reale, non poteva che gioire del crollo dei regimi. Tanto più che avveniva in maniera incruenta. Ma la soddisfazione era accompagnata da enorme preoccupazione per la resa condizionata al capitale con cui stava avvenendo». Pintor scrive: «La morte del comunismo è, come la morte di Dio, una di quelle formule idiote che non significano niente […] Gli ideali possono oscurarsi ma non morire: il comunismo è un ideale, un’utopia razionale di libertà e di eguaglianza che accompagnerà e motiverà la vita individuale e sociale, e troverà sempre nuove espressioni finché il mondo non uscirà dalla preistoria». Ricorda giustamente Parlato che «i regimi dell’Est non avevano incarnato alcuna prospettiva comunista» e su quello si era consumata infatti la rottura con il Pci. E sull’incapacità di fare «la distinzione tra comunismo ed esperienza storica del socialismo reale» si consuma il disaccordo con Occhetto e i suoi amici che Parlato qualifica «una classe dirigente di burocrati avulsi dal Paese» mentre Rossanda in un editoriale parla di un partito con «antica abitudine poliziesca» (verso i dissidenti) e «permanente incapacità di capire l’altrui autonomia».
Sorvolo inevitabilmente su molti passaggi storici successivi ma accenno all’analisi feroce del liberismo – che Parlato cataloga come un’utopia fallita – e della paura, «la merce che si vende meglio». L’analisi inevitabilmente deve far tappa per «la sinistra italiana che conosciamo è morta», frase d’apertura di un famoso editoriale che poi proseguiva «quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco» e nel finale auspicava una nuova «internazionale […] il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Ancora una volta la firma era di quel Pintor che, a ragione, Parlato ricorda così: «Luigi le parole le modellava e le manovrava, come il fioretto e l’obice, a seconda delle circostanze».
Poco centrato (o almeno parziale, incompleto) mi pare l’identikit che Parlato traccia a pag 84: «Il lettore del manifesto non è l’operaio ma un medio-piccolo borghese colto, arricchitosi negli anni del miracolo (economico) che vota comunista ossessionato dalla fragilità del proprio successo sociale e sperando in uno Stato garante di stabilità e di uguaglianza». Punti di vista comunque. L’arcipelago de «il manifesto» è così vasto da includere chi lo compra solo il sabato (perché c’è il supplemento «Alias») e chi il sabato non va in edicola (proprio perché c’è «Alias»).
Parlato cita una frase, riferita a un altro periodo storico, che vale ancora oggi: «Per difficile che possa parere, perché la fantasia politica è scarsa, vogliamo essere l’ embrione di una società politica aperta».
La chiusura del libro – lo ripeto – mi ha commosso: «Le ripetute crisi del manifesto mi hanno ricordato il mito di Anteo. Il combattivo gigante […] vinceva perché tutte le volte che cadeva per terra (la Terra era sua madre) riprendeva le forze e batteva l’avversario. In tutte le ripetute crisi del manifesto la Madre Terra sono stati i lettori compagni […] che sempre ci ha ridato forza. E se Ercole ci solleva da terra per strangolarci, si sollevi la Terra pur con tutte le critiche e i rimproveri che meritiamo […] ».
E viceversa: per non venire strangolato Anteo-manifesto deve ricordare da dove viene (può venire) la sua forza.
 
UNA DOVEROSA (BIO)-NOTA
Onesto sì, cerco di esserlo ma oggettivo, imparziale, obiettivo per carità no. Così – a chi non mi conosce e passa di qui – preciso che ho lavorato per anni a «il manifesto»: in tandem con Riccardo Mancini (la firma era Erremme Dibbì) sulle pagine culturali negli anni ’80 e nel decennio successivo soprattutto come corrispondente dall’Emilia-Romagna. Mi sento parte, in piccolo, della sua storia e dunque mi angoscia quello che sta accadendo.