Andrea Manzi, Morire in gola

06-09-2009

Versi intrisi di melma e di sole, di Armida Parisi

Una raccolta di versi che si legge come un romanzo. Il che capitava un tempo coi poeti che hanno fatto la storia della letteratura mentre avviene di rado ai giorni nostri, il cui caotico avvicendarsi si riflette in una poesia minimale, più attenta a cogliere il respiro del particolare che a interrogarsi sull’universale.
Con “Morire in gola” (Manni) invece, Andrea Manzi si muove dentro spazi più vasti. La ricerca di senso è il filo conduttore di un percorso poetico che prende le mosse da un evento drammatico, la morte di Miriam Makeba durante il concerto commemorativo delle vittime del blitz camorristico di Castelvolturno, per soffermarsi sull’aura mortifera di una quotidianità cittadina dominata dalla velocità e dall’inciucio, e approdare infine a una decisa opzione vitalistica fatta di natura e legami familiari.
In una sorta di “umana commedia” contemporanea, il poeta si immerge nell’inferno della banlieue popolata di clandestini che, come in una nuova Auschwitz, vanno al lavoro stipati in pullman stracarichi che diventano “bare di gomma” per “schiavi invisibili”, “servi della nuova gleba”. È un “andare venire tornare per nulla” il loro, che girano “l’aria al vicino come spinello sputacchiato” con “pupille di ghiaccio fisse su chi sale chi scende chi va”. Villa Literno è un inferno, dove “la poesia lascia il cielo” e “il tempo dell’uomo minore raschia le stelle”: i clandestini “sono gli schiavi di partenope” che li guarda indifferente, “dinanzi ai loro occhi sfavilla e trema Mergellina”.
Non c’è spazio per Dio, in un mondo in cui la “vetrina global” dei consumi ha preso il sopravvento su ogni afflato morale. Ma c’è uno spirito che aleggia in tanta desolazione, “l’ombra di Pierpaolo s’aggira con la faccia di dio – l’ultimo profeta all’alba dell’era di plastica aveva previsto il mondo nel dirupo”: è Pasolini “in croce all’idroscalo”, ormai dimenticato dai più, come la sua poesia che “non è risorta il terzo giorno né dopo” ma “profuma di melma e di vita ancora scrive”.
Intrisa nel fango della sofferenza bruta, la penna del poeta si muove lenta e dolente, solidale e incredula, indignata e sferzante: schiaffeggia il lettore con immagini forti a accostamenti brutali, ma soprattutto tormenta il suo stesso proprietario, sottolineandone impietosamente l’impotenza ad agire per qualsivoglia cambiamento.
Poi il punto di osservazione si allarga: dall’inferno dei clandestini, si passa al purgatorio di un’esistenza banalmente inquadrata nel tran tran quotidiano. Fedele alla sua professione di giornalista, Andrea Manzi, che è vicedirettore di questo giornale, racconta fatti e personaggi, ma li filtra con sensibilità e linguaggio di poeta raffinato. E tutti entrano nei suoi versi: la moglie Anna, il figlio “Dindo”, i cani e i compaesani, i colleghi, la redazione, gli amici e lo psicanalista, ma anche le letture e gli autori preferiti, l’omeopatia, il giardino e l’automobile. Le liriche si fanno brevi. Ognuna scaturisce dalla concretezza di un gesto, di un evento, di una cosa. Ma subito questi si trasformano in metafore potenti, espressione di un viversi che rischia di sfaldarsi intorno all’assenza di senso. Sicché nello slogan “I bastardi sono tosti” e nel logo “bd, bastardidentro” ravvisa “Orizzonti di santa bestemmia”, mentre “il vecchio aglianico del vulture strabilia/e guida palinsesti senza baudo e la venier”. Dopo però lo sguardo si illumina a cogliere lo spruzzo del colore di una viola o degli ulivi in fiore o di un sole disegnato da mani bambine, allora i versi scorrono fluidi creando immagini felici: “La poesia è una rosa che s’apre/nel vaso – è natura morta ma si schiude e vive – i nuovi petali sono resurrezioni/lo stelo reciso genera sorprese/ed è un miracolo”.
Lo sguardo del poeta diventa così un viatico essenziale a rendere accettabile il susseguirsi inutile dei giorni, a patto però che la sua parola sia fatta di carne. Lo dice apertamente lo stesso Manzi, in quella sorta di dichiarazione di poetica che è il capitolo “monologando”, inserito al centro del libro: l’urgenza di parlare della concretezza che si fa persona, di sentimenti vibranti e ansie che prendono corpo è qui rivendicata come fine primario della poesia. “Carne e parola – scrive l’autore in una stringente prosa lirica – un rapporto che sta per carne raccontata ma anche per parola di carne o parola incarnata – parola incorporata in una gabbia animata e viva”. Qualche riga prima aveva precisato che “la carne dipende dal pensiero perché attraverso di essa puoi toccare respingere amare uccidere e la senti pulsare”. È veramente singolare la ripresa, in un contesto dichiaratamente laico, di un linguaggio biblico, quasi sapienziale. “Il verbo si è fatto carne” è espressione del Vangelo di Giovanni. E in greco “verbo” è scritto “logos” che significa anche “pensiero“. L‘estrema naturalezza con cui Manzi ragiona sulla triade parola-carne-pensiero la dice lunga sulla intrinseca religiosità della sua ricerca. Intendendo il termine nel suo significato più ampio, di tensione interiore verso un assoluto perennemente fuggevole e di cui tuttavia si avverte un urgente bisogno.
E se nella precedente raccolta, lo slancio creativo tendeva a essere soffocato da una troppo ingombrante presenza della figura paterna, qui viene assecondato grazie al recupero delle memorie infantili legate al calore materno. “Sei nel vento – ma mi scaldi/come al tempo dei baci sodi/sulla mia morbida faccia di bimbo/nei lontani giorni del sogno/com‘ero felice quando dissi mam-ma“. Il ricordo della madre va di pari passo con la scoperta della tenerezza femminile. Sono versi struggenti quelli che chiudono la seconda parte della raccolta e che segnano un ponte di passaggio alla dimensione solare della terza. Che s‘intitola “Mari“, ed è densa di onde, di tepori e profumi. Il paradiso del poeta non si libra nei cieli danteschi ma galleggia nell‘azzurro arcipelago della Maddalena: è l‘eterno ritorno all'“amnios” di un sé che si ritrova “in due orbite minuscole e verdi/scintille di mare – è dindo/sono i suoi occhi specchio del mio destino”. Il viaggio del poeta si conclude in quei due “fari di carne”. È qui, nello sguardo del suo bambino, che i suoi “strazi” ora “ormeggiano”.
Il senso che cercava l’ha trovato nel ciclico scorrere della vita che si rinnova ogni giorno. Così prende congedo dal lettore. E lo saluta con lo splendore di un “sole” che “nasce e muore” “e risorge puntuale”.