Maria Jatosti, Per amore e per odio

08-06-2011

La fatica di scrivere, di Elisabetta Liguori
 

Infinite sarebbero le domande da porre a Maria Jatosti, scrittrice appassionata che ha attraversato l’ultimo cinquantennio con lucidità e cuore, lasciandolo rifluire libero e autentico nei suoi scritti, tra i quali l’ultimo, Per amore e per odio, Manni 2011.

Qual è il suo rapporto con la vita trascorsa e quella ancora da vivere?
Scrivo di solito privilegiando l’autobiografia. Cerco di trarre riflessioni di carattere generale dall’esperienza privata e, così facendo, ad ogni nuova avventura mi trovo di fronte al grande mare della memoria. Quella storica, di tutti, e quella minima, personale. Il rischio è di venirne inghiottita, sopraffatta, di soccombere alla carità feroce dei ricordi o di alterarli per difesa, per compromesso, accomodandoli, sovraccaricandoli di significati, simbologie, mitizzazioni. Essenziale è allora mantenere saldo il controllo della navigazione, avendo ben chiari la rotta e il porto. Capita a volte che i ricordi si impastino nel sonno, nei sogni, in cui scivoliamo in una sorta di stupefazione atterrita, invischiandoci in noi stessi. Certe ombre troppo lunghe, certi bagagli troppo ingombranti possono rischiare di renderci più grevi, ma senza memoria saremmo ciechi, andremmo a tentoni, sballottati dai marosi degli eventi. Senza memoria non potremmo fidarci del domani, immaginare gli anni che verranno e che ci restano da vivere, tenacemente, ad occhi aperti, nonostante tutto.

Nel suo romanzo è dato grande spazio alla figura di Pierpaolo Pasolini, oramai una funzione più che un uomo. Maria Jatosti e gli intellettuali: un amore durato una vita intera?
Dalla folla di immagini evocate, che si succedono, ciascuna portandone con sé un’altra, fanno parte, a diversi gradi di rilevanza affettiva, tutti coloro al fianco dei quali ho avuto la sorte e il privilegio di percorrere tratti brevi o importanti dell’esistenza e il cui ricordo, appunto, mi è nutrimento caro ed essenziale: amori, amici, incontri, maestri. Tacendo delle ben note vicende private – di un grande intellettuale, Bianciardi, sono stata compagna per vent’anni, un altro, Francesco Paolo Memmo, l’ho sposato più di trent’anni fa – posso dire di aver goduto dell’amicizia di poeti, scrittori, artisti. Penso a Vittorio Sereni, a Vasco Pratolini, a Manlio Cancogni, a Carlo Lizzani, a Gianni Toti, a Enrico Vaime, a Mario Lunetta e a tanti altri, amici o compagni di strada e di imprese letterarie e politiche. Per quanto riguarda Pasolini, ho amato la sua poesia, alcuni film e soprattutto certi scritti che sembravano allora eretici ma che oggi colpiscono per lucidità e lungimiranza. Come racconto in una pagina del libro, il nostro incontro è stato fuggevole, più ideale che reale, ma il ricordo che ne serbo resta vivissimo in me insieme alla coscienza di ciò che ha significato, e che per molti di noi continua a significare il suo insegnamento. Quanto agli intellettuali, mio padre era un intellettuale secondo l’accezione gramsciana. È lui che mi ha trasmesso l’amore per la lettura e per i libri.

Quale senso ha avuto e ha oggi la scrittura? Fatto privato o pubblico?
Per mio padre ho scritto il Confinato, il libro che segna l’inizio del mio lungo percorso di abusiva delle lettere, di lavoratrice della scrittura. Perché di lavoro, appunto, di fatica, di mestiere, si tratta. I miei strumenti sono le idee, il progetto, la sperimentazione, la costanza. E anche l’improntitudine, forse, la presunzione nel pensare – nell’illudermi, nel raccontarmi, fingermi – che il mio infinitesimale impegno possa in qualche modo incidere sull’andamento delle cose nel mondo. Rimpianti? Recriminazioni? No. Solo la presa d’atto lucida e malinconica della fine di un sogno. La consapevolezza di aver creduto in qualcosa che potesse, dovesse, accadere e che non è accaduto.