Orazio Caruso, Sezione aurea

05-05-2007
Addio a Itaca, di Giuseppe Rapisarda

 A prima vista, l’aggettivo “metafisica” con cui viene qualificata (nella quarta di copertina) la Grecia, cioè lo scenario di questo romanzo, sembra non pertinente e quasi fuorviante. In effetti la Grecia di questo libro è descritta nella sua verità topografica, è ritratta nell’asprezza rude di tanti paesaggi, è “sentita” nella forza insinuante dei suoi mille odori e sapori: è una Grecia reale, quindi, tangibile, misurabile, con percorsi stradali ben definiti, con la scansione fascinosa dei nomi dei borghi attraversati, con la visione di emergenze arboree endemiche.
È ovvio, naturalmente, che nell’impianto verista si possa insinuare qualche particolare fantastico (sappiamo tutti che l’oggettività assoluta, in arte, non esiste): si può nutrire qualche dubbio, per esempio, sulla posizione dell’hotel “Policleto” al metro 324 circa della via di San Costantino, ad Atene,e si potrebbe dubitare anche dell’esistenza di tale albergo. Ma, a prescindere dalla situazione di fatto, il nome del sommo scultore è troppo pregnante ed evocativo, nel contesto numerico di pagina 209 del libro, per essere una scontata denominazione turistica. Policleto è, infatti, lo scultore “pitagorico” per eccellenza, forse affiliato alla setta, forse semplice simpatizzante, ma comunque fedele e ossequiente trascrittore, nel marmo, della formula del numero aureo. Pitagora, nelle sue inesauste misurazioni, ne aveva scoperto l’esistenza: in ogni corpo, in ogni grandezza, esiste un punto, numericamente determinato, a partire dal quale si instaura l’eguaglianza fra due rapporti interni al corpo stesso. Da questa proporzione si origina quel senso di armonia, di corrispondenza e di compiutezza che l’arte classica, o neoclassica, ispira anche all’osservatore più sprovveduto.
Ora, se questo principio generatore di armonia e di misura, nascosto nella formula detta, appunto, della proporzione aurea, è il concetto o la forma delle più esemplari creazioni del genio ellenico, ne consegue che proprio qui è dato trovare la Grecia “metafisica” di cui si parla nella nota di presentazione del romanzo. Ma, una volta scoperto che la Grecia “metafisica” è quella della sezione aurea, ci si chiede: chi compisse un viaggio nella Grecia dei nostri giorni riconoscerebbe questo paradigma di bellezza e di armonia, lo riconoscerebbe ancora vivente e operante fuori dei musei e delle zone archeologiche? 
La domanda è doverosa, perché il romanzo consiste nella narrazione delle avventure di un viaggio in Grecia compiuto da due ex studenti e da un gruppo di attuali studenti dello “Spedalieri” di Catania. E se il lettore rinunciasse a porsi questa domanda, rischierebbe di smarrire il filo di Arianna del racconto e si perderebbe nel labirinto di storie personali che, non collegate al titolo dell’opera, potrebbero essere considerate frammentarie, contingenti, gratuite.
Orbene, la Grecia classica, la Grecia della sezione aurea non esiste più se non nelle vestigia del passato. La Grecia di oggi non impone ai suoi visitatori nessuna “zétesis”, nessuna ricerca dell’assoluto. La modernità irrompe nella patria dell’intelletto e avvolge tutto nella coltre del conformismo, dell’omologazione, della banalità. Complici i riti assurdi dell’americanismo televisivo e delle artefatte contrapposizioni politiche, del divertimento alla moda e della trasgressione a buon mercato, la Grecia si svuota di senso e rinuncia a ravvisare eguaglianze e a stabilire proporzioni, mistifica la sua identità, abiura la sua missione.
Il sistema dei personaggi è così coerente con sé stesso che ognuno rimanda all’altro con grande naturalezza, come in un gioco di specchi. A Matteo, questo figliol prodigo della vita, per usare una suggestiva espressione d’autore, con le sue fughe in avanti e i suoi pensosi abbandoni ai ricordi, fa eco Antonia, questa Penelepe della vita, piagata dalla vedovanza e facile preda di tenerezze e autoillusioni; agli studenti liceali, questi beniamini della vita, destinatari di tutte le promesse, si contrappone Maddalena, questa Arianna volontaria della vita, chiusa in un romitaggio geloso, circoscritto dall’orizzonte di una piccola spiaggia sabbiosa, quella di Matala, antico porto cretese. Ma il personaggio forse più emblematico del passaggio alla modernità è … un cane, quello che, col nome di Porto, accompagna caparbiamente Matteo, distinguendosi per fedeltà e devozione. Ma, nelle ultime pagine del romanzo, si scopre che Porto è in realtà Adolf, il cane del neo-fascista Fragalà. Ecco, questo cane non è Argo e un Ulisse moderno, se mai riuscisse a raggiungere Itaca, non troverebbe più il suo cane ad aspettarlo.