Giancarlo Sissa, Il bambino perfetto

30-05-2008

Quelli nati nel 1961, di Vito Antonio Conte

 Le ultime tre parole del libro di cui sto per dire sono il bambino perfetto. La fine di questo libro è anche l’inizio: Il bambino perfetto, infatti, è anche il titolo dell’ultimo lavoro di Giancarlo Sissa, pubblicato nell’aprile di quest’anno per i tipi di Manni Editore, nella Collana Pretesti, curata da Anna Grazia D’Oria. Già ho scritto (altrove) che la fine di qualunque cosa segna l’inizio di qualcos’altro. Ed è vero anche il contrario. Così, almeno, mi piace pensare. Così è in questo libro in cui Sissa libera infiniti versi o versi d’infinito in carne e ossa.

Copertina discutibile, poi settantanove pagine (tutto compreso) estremamente curate, senza sbavature – dal punto di vista tipografico - , ad eccezione dell’unico (sottolineo unico) refuso a pag. 49: un apostrofo di troppo (ed è curioso che l’ultima parola di quella pagina sia errore). Sottigliezze a parte, infiniti versi, dicevo: perché si tratta di narrazione che di prosaico ha poco o nulla.
Narrazione in forma poetica, dunque, attraverso la quale le biografie, quella dell’Autore e quelle di chi ha fatto un pezzo di strada insieme a lui, si contaminano, accentuando la direzione stilistica e contenutistica già chiara nel precedente libro di Sissa, Manuale di insonnia (raccolta di versi edita da Nino Aragno nel 2004, dove il tratto intimistico della sua poetica si andava spostando verso un lirismo denso di denuncia, invettiva e, comunque, attenzione per la vita d’intorno, con tutte le storture e assurdità proprie del presente.
Ne Il bambino perfetto non c’è più quello che Giovanni Giudici, a proposito di Sissa, ebbe a definire “tenero poeta d’amore”, ma si rinvengono, piuttosto, i temi più duri e urticanti del vivere questi giorni difficili, partendo da un’inchiesta su di sé, come bene ha detto Antonio Prete, nella nota conclusiva Margini. La scrittura di Sissa tocca in maniera lucida e spietata le speranze, i sogni e i fallimenti di una generazione, quella nata nel 1961 (ch’è anche la mia), troppo giovane per vivere il ’68, segnata dal risveglio del ’77, marcato dalla droga e dall’illusione che davvero un altro mondo fosse possibile.
Fino alla sconfitta degli ideali, naufragati nella politica negata e, spesso, tradita. Annichiliti dalla mancanza di fattività reale e – giocoforza – cullati in certa disperazione anarchica per non finire sbriciolati dal consumismo in nome del dio profitto a tutti i costi; quello che cinicamente chiude gli occhi dinanzi alla morte quotidiana di una crescente moltitudine di reietti senza diritti di ogni latitudine. Quello che importi soltanto se contribuisci alla crescita del PIL e che ha capovolto i termini del concetto di felicità inteso come soddisfazione conseguente alla capacità di trattenere (foss’anche) una piccola conquista frutto del sudore e del sangue e che ha sostituito la bellezza dell’essere con l’ipocrisia dell’avere. Dell’avere a tutti i costi. Dell’avere più dell’altro. Dell’avere per possedere e poi buttare via. Dell’avere sempre e comunque. In un’iperbole di follia che definire tale suona d’offesa alla follia. Quella vera. Ma rende bene l’idea della stoltezza del nostro tempo, di chi lo abita e della spirale senza fine in cui si può finire irrimediabilmente risucchiati. Dimentichi di quel che appare essere una delle poche soluzioni possibili come antidoto alla distruzione delle relazioni umane e della comune casa: praticare la decrescita felice, con tutto ciò che implica fare del concetto racchiuso in queste due parole pane quotidiano. Semplificando; per chi ci governa (sostenuti economisti di regime, quand’anche non asserviti) dovrei spendere il danaro che ho e (soprattutto) quello che non ho per acquistare, comprare, accumulare beni, spesso inutili, per saziare la fame di benessere e, così, far crescere le vendite e, conseguentemente, la produzione di quei beni. Senza soluzione di continuità. All’infinito. Alla ricerca della felicità.
Quella effimera legata alla crescita del PIL (questo sconosciuto!). Se, invece, faccio per dire, mi accontento della mia vecchia auto che, per quanto prossima alla pensione, fa ancora il suo dovere e, perciò, risparmio qualcosa e sono due volte contento, allora la mia condotta è contro gli spot, contro il progresso, contro la crescita del PIL, contro il Sistema. Che ha ben poca considerazione di me. Perché non sto più al centro dell’interesse (del suo), ma ai margini della società che, con il mio agire, impedisco di progredire. In realtà vi è che quel mio accontentarmi dell’auto vecchia, quel mio non desiderare ogni nuova stronzata sponsorizzata dalla pubblicità dei poteri forti, è sintomatico di un mio benessere vero. Quello che qualche economista fuori dal coro ha osato definire decrescita felice! Sissa oppone strenua resistenza a quel vortice d’assurda illogicità e, col suo dire poetico, indica una via di fuga possibile, quella che faticosamente percorre nelle residue pulsazioni dentro e fuori di sé. Ho conosciuto Sissa leggendo i suoi versi. L’ho incontrato di persona un paio di settimane prima dello scorso Natale. Seduti ad un tavolino sul marciapiede nei pressi della Ricordi, a Bologna, con Valentina, abbiamo consumato parole e una cioccolata calda.
C’erano ancora i segni della nevicata della notte precedente. La neve. Neve. La parola neve è quella più ricorrente in questo libro, necessario per comprendere, dalla parte di chi le mani se l’è sporcate di faticoso vivere, questo nostro tempo. Le parole di Sissa arrivano addosso come precipitazione atmosferica di cristalli di ghiaccio parzialmente fusi, che si uniscono in fiocchi di forma e dimensioni variabili e, fuor di metafora, lasciano il segno. Sissa, sin dall’incipit, vagamente biblico (non a caso nominato Gli elementi del diluvio), annuncia la distruzione del dissennato operare umano, fa sentire il vapore dello sgomento, fa vedere la nudità del buio, apre la sua personale finestra sull’occidente agonizzante di valori sul resto del mondo agonizzante per gli sprechi che qui si consumano. Poi, il libro si snoda in sei momenti: Corrispondenze: scritti operai potrei ridefinirla. Ora insorta dell’Ade: canto sublime per l’amico che non c’è più inseguendo un altro gol. L’impostura: di una città che non riconosci più. Il seme del disordine: elogio del silenzio oltre ogni rumore. Le acque del sogno: o liquidità di anni scivolati via. Il bambino perfetto: parole, pagine e luce: creare con ogni parte di sé senza paura, tenendo per mano la fantasia bambina: il nuovo è ancora possibile, forse. L’Autore ha dato corpo a un canto poetico che va oltre la poesia civile, che va al di là della mera denuncia, che oltrepassa il senso del dissenso per divenire aspra descrizione del disastro, anelito di candore, di innocenza fatta esperienza o di consapevolezza che ogni matura azione non può prescindere da tutto quel che è stato, senza mortificare nostalgie. Sissa ha reso la sua storia e le storie di chi di quel viaggio è stato parte scegliendo ogni singola parola per farlo, recuperando vita e semantica, depurando l’esistere e il verbo dall’inutile e dal superfluo. E rimane neve, neve e ancora neve…che scalda chi non c’è più, che disvela altri stati di esistenza, che riflette immagini andate, che mitiga la morte e uccide, che cade soffice su sorrisi sdati e raggela ricordi perduti, che si fa desiderio e luce. In questo senso, Sissa restituisce una parte di sé e delle cose che ha toccato nel suo viaggio con versi di infinito in carne e ossa.
Prima di ripartire. Perché ogni viaggio necessita di un luogo di ristoro. Per restare sulla parola neve, mi piace pensare che in quell’angolo di pace girano note di jazz, quelle di There Will Never Be Another You. Ricordo di questo pezzo quattro differenti versioni, che racchiudono quattro letture differenti, come differenti – ma accomunate dall’arte di improvvisare propria del jazz che richiede grande conoscenza della tradizione jazzistica e padronanza della tecnica (dello strumento e vocale) e straordinaria inventiva – sono i grandi che l’hanno interpretata: Sony Rollins, Sarah Vaughan e Art Tatum. L’ultima quella che preferisco, è la versione di Coleman Hawkins: fluisce in un tempo lento, come una ballata. Come il pensiero-desiderio-speranza che Sissa affida al suo (sé) bambino: Io non so ballare ma ci penso continuamente.