Patrizia Politelli, Di notte si vede ancora di più

14-06-2010
Tornando da Kenge. Intervista di Tiziana Bartolini

E' un libro scritto 'a posteriori', nel senso che agli incontri e alle sensazioni frutto del suo viaggio in Congo l'autrice ha concesso un tempo di sedimentazione. Dopo qualche mese "si sono imposti luoghi e persone" e così nasce un testo "forse politicamente e stilisticamente scorretto" che Patrizia Politelli ha scritto "non per edulcorare" la realtà che ha visto, ma per narrare "gli spostamenti, le reazioni, le diffidenze, le curiosità, la generosità, la ricchezza affettiva, le bizzarrie, le paure, le difficoltà, la forza, i sorrisi". E' un libro che vuole incuriosire, che genera domande e che non intende dare risposte. E' un invito ad una conoscenza rispettosa ed intelligente dei tanti mondi che popolano il mondo. A Kenge per tenere un corso di formazione alle donne indigene, l'autrice ha colto l'occasione di un contatto libero e profondo con le donne e la quotidianità per regalarci una serie di istantanee, asciutte ed eloquenti allo stesso tempo, attraverso le quali si entra in contatto diretto con una realtà 'altra'. Una delle tante, che è interessante conoscere ed importante imparare a rispettare.

Ecco, mi pare che il 'rispetto' sia la cifra che scandisca le pagine del tuo libro. Alcuni racconti rimangono 'aperti', nel senso che c'è la narrazione ed è assente il giudizio. E' stata una scelta o davvero hai vissuto così, per fare un esempio, l'agire di Maman Christine, la 'carceriera del cibo'?
Ho vissuto così: c’era poco da giudicare. Ero dentro questa esperienza e lo ero insieme agli altri/e: si è trattato di un reciproco avvicinamento. Curioso, sospettoso, generoso. Alla fine direi facile ed affettuoso. Se avvicini le persone e non i luoghi comuni, ti si presentano in tutta la loro ricchezza e nelle loro sfaccettature, così come anche tu, che puoi essere amabile o irritante a seconda delle situazioni e degli interlocutori.
Maman Christine è, per esempio, simpatica ed insopportabile insieme. Simpatica nei momenti di relax, insopportabile quando entrava nel suo ruolo di cuoca. Quello era il suo momento di potere e le chiavi della dispensa lo strumento di controllo, punizione o elargizione: eravamo tutti a sua discrezione. E l’unica ospite nera della casa, giovane insegnante e proveniente dalla città, lo era ancora di più.

Nelle ultime pagine scrivi che il tuo viaggio era iniziato molto prima. Hai dovuto rinviare la partenza per problemi di famiglia, mai hai continuato a prepararti: oggetti, notizie. Parlaci dell'impatto che hai avuto nel contatto con una realtà rispetto all'idea che ti eri fatta...
E’ stata più dura del previsto, nonostante, in parte, fossi stata avvisata. Lo è stata nella lunghezza e pericolosità della strada, nella durezza del vivere quotidiano, nella crudezza di una realtà postbellica (in quella zona almeno) dove la guerra vive ancora nelle macerie delle cose e delle vite delle persone, negli allarmi per lo sminamento, nell’urgenza dei bisogni essenziali, nell’assenza di una prospettiva e di una direzione. Nel disorientamento violento di chi viveva per la guerra ed in essa trovava il suo senso: i militari senza più ruolo, denaro, professione. Schegge impazzite nella notte, soprattutto nella capitale.
Ma è stata anche sorprendente nell’intelligenza delle donne, nella loro capacità di colmare vuoti, di intraprendere iniziative coraggiose, di procurarsi e procurare risorse: materiali ed intellettuali. Lavorano per sé e per gli altri/e, costruiscono dal nulla attività (agricoltura, piscicoltura, tessitura…). Chi sa, insegna e trasmette: alfabetizzazione (per le molte che non l’hanno) e cultura. La loro: di donne che, nel fare e nel sostenere, fanno marciare quel mondo così difficile cercando di renderlo abitabile. Insieme.

Il motivo del tuo viaggio è stato un corso di formazione alle donne. Quali erano gli obiettivi delle lezioni e che idea ti sei fatta di quel tipo di percorso, pensi cioè che sia utile per quelle donne questo tipo di relazione con noi?
Avevo visto filmati, sentito relazioni e discusso con molti della sproporzione tra le risorse economiche ed umane impiegate in alcuni progetti di cooperazione internazionale e l’effettiva efficacia degli stessi. Mi sembrava che il nodo da affrontare fosse quello dell’atteggiamento soggettivo delle parti in causa: qui e là. Che si trattasse di mettere mano ad un avvicinamento e trasformazione reciproca, piuttosto che una ulteriore sovrapposizione di strutture esterne. A cominciare dalle donne che ovunque affrontano situazioni difficilissime, conoscendole ed indicando possibili soluzioni e praticandole come possono. Non si esce da una sudditanza economica e culturale secolare senza riacquistare il potere di rappresentare in proprio: così come hanno indicato e praticato le donne in occidente (e non solo), così come praticano alcuni intellettuali africani dopo la fine formale della colonizzazione.
Abbiamo lavorato insieme sulle storie di vita, sulle autorappresentazioni individuali e collettive, sulle attese, sulle speranze, sui macigni materiali, mentali, politici che si oppongono anche ad un minimo miglioramento. Sulla percezione che comunque è sempre altrove che si decide.
Il soggiorno è stato breve ed è solo un inizio, ma l’impressione che ne ho tratto è di una grande vitalità di relazioni. Loro non hanno certo bisogno di noi per sapere dove operare e come, ma hanno bisogno di riconoscere il valore di quello che fanno e che sia riconosciuto da altre. Hanno bisogno di non essere lasciate sole, di condividere, mettere in discussione e rafforzare la via che stanno percorrendo.
E noi abbiamo bisogno di loro per imparare altre strade, per misurare i pregi ed i limiti di ciò che abbiamo fatto, per aprire l’immaginazione ad una concezione multipolare dell’universo che non ci veda, necessariamente e sempre, protagoniste. Proviamo a pensare non solo in arabo o in cinese, ma anche in kikongo e ci apparirà un altro mondo. Certo più complicato, ma anche più ampio ed interessante. Forse più comprensibile e modificabile.

Quali sono i bisogni primari delle donne in Congo, o almeno per le donne con cui hai avuto contatto? Cosa possiamo fare noi di davvero utile per loro?
Non so quali sono i bisogni delle donne della Repubblica Popolare del Congo: è un territorio vasto come metà della attuale Europa. Io sono stata in una città- villaggio disastrata ma importante: è il capoluogo della provincia del Kwango, un punto di snodo cruciale a 300 km dalla capitale. Quelle che mi sono state indicate come esigenze e quello che possiamo fare è:
-mantenere i contatti: non sono donne di metropoli o di circuiti internazionali (non ancora);
- dare un minimo sostegno economico, almeno per comperare i materiali necessari all’alfabetizzazione e per favorire la nascita di una Casa delle donne autonoma, alla quale stanno pensando. Attualmente supporto e locali per vedersi e svolgere le attività sono messe a disposizione della Caritas diocesana;
-contribuire alla realizzazione dei loro progetti, cooperando ed aiutando a reperire fondi;
-contribuire all’alimentazione e all’educazione delle ragazze e dei ragazzi, magari con una adozione a distanza;
-inserirle nel circuito del commercio equo e solidale, se non per i prodotti alimentari (data la difficoltà dei trasporti) almeno per i tessuti.
Suggerirei anche l’invio o il contributo per l’acquisto di qualche cassa di birra: ne sono ghiotte e lì costa molto cara.

Cosa ti ha più colpito nel tuo viaggio e soggiorno? Quale incontro o quale situazione?
La sapienza della vecchiaia e dell’infanzia. Noi stiamo atrofizzando la curiosità e vitalità dei nostri bambini (rimpinzandoli di attività, informazioni e cose) e rinnegando il patrimonio della vecchiaia, dell’esperienza, della storia. Bambini costretti a fare gli adulti e vecchi/e rintanati/e in maschere giovanilistiche senza spessore e senza sviluppo. Tutti gli incontri quotidiani mi riportavano alla semplicità dello scorrere del tempo e alla sterilità dell’eterno presente.

Perchè hai scritto il libro?
È difficile rispondere a questa domanda. Parti da un’idea, da un’esigenza, ma le motivazioni profonde ti si rivelano nel tempo, magari alcune sono gli altri ad indicartele evidenziando temi e sensibilità.
Mettiamola così: ad un certo punto ho sentito il bisogno di raccontare questa esperienza che era stata particolarmente intensa, ricchissima di emozioni e di riflessioni, di sorprese e rivelazioni.
In qualche modo mi sentivo anche testimone di un lavoro collettivo, caparbio e consapevole della sua necessità e della sua forza, della possibilità di uno sviluppo, della certezza che quelle sono le basi per cambiare il mondo. A partire dalla fatica delle braccia e delle gambe delle donne, dal loro impegno a modificarne l’immagine sociale, normativa, mentale. Quelle donne, queste donne, vogliono essere in contatto con tutte le altre, uscire dalle difficoltà comunicative e relazionali (mancanza di trasporti, di internet…) ed in qualche modo mi hanno proposto di portare la loro voce. Forse questo è stato l’imput. Ed ha dettato anche i modi della scrittura che non poteva essere quella dell’osservatore. Esporsi in prima persona (un io narrante che si mette in gioco) in qualche modo protegge anche l’esposizione dell’altro/a: ti mette alla pari.
Ed è da questo, forse, che deriva quella “cifra di rispetto” di cui parli all’inizio.